Le bombe che scuotono Amman fanno tremare Abdallah II

Il bilancio degli attentati agli alberghi sale a oltre 50 morti e centinaia di feriti. La difficile sfida del regno hashemita

La Giordania di re Abdallah II si scopre improvvisamente nell’occhio del ciclone, non solo per la sua posizione geografica (stretta com’è fra Iraq, Siria, Arabia Saudita, Israele e Cisgiordania occupata), ma per essere stata direttamente investita da una devastante ondata di terrorismo importata – secondo ogni plausibile evidenza – da oltre confine. Tre attentatori suicidi si sono fatti esplodere in altrettanti alberghi di Amman, solitamente frequentati da turisti e viaggiatori stranieri, in particolar modo occidentali e israeliani; il bilancio è di 57 morti e moltissimi feriti, 110 secondo il comunicato ufficiale, almeno 300 secondo altre fonti. Le vittime sono in maggioranza giordane, ma comprendono un certo numero di stranieri, inclusi tre cinesi e un indonesiano nonché due alti ufficiali palestinesi appartenenti ai servizi di sicurezza dell’Anp in Cisgiordania; tra i feriti ci sono anche un americano, cinque tedeschi e uno svizzero.

Il triplice attentato ha avuto l’effetto di un terremoto: il re Abdallah è rientrato precipitosamente da una visita in Kazakhstan mentre il segretario dell’Onu Kofi Annan ha rinviato una sua missione ad Amman prevista per i prossimi giorni; sono state adottate rigorose (anche se forse tardive) misure di sicurezza, inclusa la chiusura delle frontiere. Le autorità hanno subito puntato il dito contro Al Qaeda, la cui branca irachena ha del resto rivendicato via internet la strage; un’accusa e una rivendicazione peraltro anche troppo scontate se si ricorda che il capo di al Qaeda in Iraq è proprio il giordano Al Zarqawi, condannato in patria prima a quindici anni e poi per due volte alla pena capitale.

Il micidiale attacco poteva dunque essere in una certa misura atteso; non è difficile, fra l’altro, individuare un collegamento – almeno obiettivo e al di là della identità degli autori – fra la strage di Amman e quella di Sharm-el-Sheik alcuni mesi fa. In entrambi i casi sono state prese di mira strutture alberghiere frequentate da occidentali e israeliani e sono stati colpiti due Paesi arabi (finora gli unici) che hanno firmato la pace con Israele. E qui si inserisce un piccolo ma intrigante giallo: ieri mattina la edizione on line del quotidiano di Tel Aviv “Haaretz” ha scritto che dall’hotel Radisson – uno dei tre colpiti – erano stati poco prima evacuati alcuni ospiti israeliani, accompagnati sotto scorta al confine, il che dava adito a ipotesi sconcertanti, se non altro quella di una maggiore sensibilità, o di un maggior “fiuto”, dei servizi israeliani rispetto a quelli giordani; ma la notizia è stata poi smentita, con la precisazione che i cittadini israeliani sono stati allontanati dopo, e non prima, che c’erano state le esplosioni. E’ tuttavia un fatto che il governo di Tel Aviv da diversi mesi aveva “sconsigliato” i suoi cittadini dal recarsi in Giordania; il che ci riporta al ruolo di “vaso di coccio” che il regno haschemita si trova a svolgere, indissolubilmente legato com’è alle vicende del confinante Iraq.

A partire dalla guerra Iraq-Iran e ancor più con la prima guerra del Golfo e i successivi dodici anni di embargo, la Giordania si è trovata a costituire lo sbocco al mare e il retroterra strategico (con la lunga strada Amman-Baghdad) dell’Iraq, con una sensibile ricaduta economica sia in termini di traffici che di forniture petrolifere; non a caso re Hussein mantenne nel 1990-91 una difficile posizione di equilibrio, o se vogliamo di ambiguità, barcamenandosi tra le pressioni della coalizione a guida Usa e una opinione pubblica interna massicciamente filo-Saddam (o comunque anti-occidentale), per non parlare degli interessi economici. Il suo figlio e successore Abdallah, che non ha né la stoffa né l’esperienza del padre, ha tenuto un atteggiamento ben diverso, tanto più nel clima del dopo 11 settembre; non ha partecipato alla coalizione anti-irachena, ma ha comunque concesso a unità speciali americane l’uso del suo territorio (non a caso già l’8 agosto 2003 l’ambasciata giordana a Baghdad veniva fatta oggetto di un sanguinoso attentato); negli ultimi tre anni inoltre il territorio giordano ha continuato ad essere il punto di transito per chi si reca in Iraq o ne proviene, e in Giordania sono ospitati almeno 400mila rifugiati iracheni, inclusi i familiari di Saddam Hussein. Un bersaglio anche troppo facile e scoperto, insomma, ed un futuro immediato a dir poco problematico.