Le basi economiche del federalismo leghista

Relazione per il convegno dell’Associazione Marx XXI
“Neoliberismo e attacco alla Costituzione”
(Roma, 12 giugno 2010)

Parlare di federalismo vuol dire parlare della Lega, in quanto la tematica del federalismo è strettamente intrecciata con la storia di quel partito. Inoltre, la Lega è centrale nel discorso sull’attacco alla Costituzione, perché il partito di Bossi è una delle forze politiche maggiormente eversive dell’assetto istituzionale derivante dalla Legge fondamentale del ’48. Difatti, la Lega si afferma in concomitanza con la fine della Prima Repubblica, affermandosi al Nord all’inizio degli anni ’90 parallelamente al disfacimento dei partiti di massa, DC e Psi, sotto i colpi prima del sistema clientelare basato sul rigonfiamento del debito pubblico, e poi delle inchieste di “mani pulite”. Ad ogni modo, il partito di Bossi, è oggi il più vecchio tra i partiti presenti in Parlamento e rappresenta una delle storie di maggior successo politico degli ultimi venti anni, per certi versi maggiore del berlusconismo stesso. Nel 1994 nella prefazione a Il grande camaleonte di Giovanna Pajetta, Gad Lerner sosteneva che la Lega fosse destinata ad essere assorbita dalla Lega “buona”, Forza Italia, appropriatasi di molte tematiche, a partire dall’antipolitica, tipiche del leghismo[1]. Poche previsioni sono risultate meno azzeccate: sedici anni dopo la Lega non solo esiste ma è divenuta un alleato ancora più indispensabile per Berlusconi, sul quale è in grado di esercitare un notevole potere di ricatto. Alle elezioni europee del 2009 si è assistito ad un travaso di voti dal Pdl alla Lega che alle regionali del 2010 è diventato emorragia, portando la Lega da meno di un terzo a circa la metà dei voti del Pdl. A questo va aggiunto che nel 2009 e ancor più nel 2010 la Lega sembra aver sfondato la linea del Po,  penetrando nelle regioni “rosse”, in Emilia, nelle Marche e persino in Toscana, specie nel pisano e a Prato, dove ha contribuito all’elezione del primo sindaco di destra dal dopoguerra. Capire cosa è la Lega e quali siano le basi del suo successo è, dunque, fondamentale.

Eppure, troppo spesso l’analisi del leghismo si è ridotta ad invettiva basata su questioni secondarie, di immagine e di facciata, complice il camaleontismo politico ed ideologico ed il gusto per la provocazione mediatica tipico dei suoi leader. Bisogna, invece, andare dietro la facciata e capire quali sono le ragioni strutturali del suo successo. Tali ragioni risiedono nella capacità leghista di investire con propaganda e programma politico le questioni di fondo del nostro Paese, sebbene le risposte che prospetta siano non solo reazionarie ma soprattutto incapaci di risolvere alcunché. In particolare, l’affermazione del leghismo affonda le sue radici sui tre maggiori squilibri che caratterizzano il nostro Paese:
 
A)    L’enorme divario economico tra Nord e Sud. Sebbene anche in altri Paesi a “capitalismo maturo” esistano aree più sviluppate e aree più arretrate, l’Italia si caratterizza sia per una più acuta differenziazione sia per la divisione che, quasi con precisione chirurgica, la spacca geograficamente in due parti. A questo proposito, basti confrontare le due regioni più popolose del Nord e del Sud, Lombardia e Campania. Fatto indice 100 il Pil pro capite della Ue a 27, quello lombardo nel 2006 era pari a 135,1, posizionandosi al 26° posto in Europa, quello campano era pari a 66,9, collocandosi appena al 222° posto[2]. Mentre la maggior parte della regioni del Centro-Nord si posizionano al livello delle regioni più ricche del cuore della Ue, il Sud si situa all’estremo opposto della scala. Si tratta del maggiore squilibrio della società italiana e probabilmente uno dei maggiori freni all’economia nazionale. La cosa più grave, inoltre, è che dopo un periodo, tra gli anni 70 e i primi 90, in cui, grazie all’intervento delle partecipazioni statali, il differenziale si ridusse, nel 2008 il peso dell’economia meridionale su quella nazionale è tornato ad essere identico a quello del 1951 (23,9%). È proprio a seguito dello smantellamento dell’intervento statale in economia, all’inizio degli anni 90 che il Meridione ha interrotto la convergenza, peggiorando la sua condizione relativa rispetto al Centro-Nord.
 
B)    Il sovradimensionamento della piccola e media impresa (Pmi). L’economia italiana si caratterizza per una maggiore incidenza della microimpresa nella struttura manifatturiera ed economica rispetto agli altri Paesi avanzati. Mentre in Italia ci sono 430mila imprese tra 1 e 9 addetti, in Francia ce ne sono 212mila, in Spagna 173mila e in Germania appena 118mila. Il proliferare della piccola impresa è un effetto sia dell’arretratezza di alcuni settori sia dell’applicazione particolarmente massiccia del toyotismo, basato sulla pratica del subappalto, allo scopo di piegare la resistenza dei lavoratori e risolvere la sovraccumulazione di capitale. In effetti, la grande impresa non è sparita, bensì si è riorganizzata segmentando pezzi del processo produttivo sul territorio in una miriade di piccole imprese fornitrici, spesso monoclienti e quindi subalterne. La particolarità della struttura industriale italiana ha inciso anche sulla composizione della classe operaia del manifatturiero che per il 25,6% è occupata in microimprese, contro il 13,9% medio nella Ue a 27, il 6,6% in Germania e il 12,6% in Francia[3]. Come vedremo, la particolare composizione della classe operaia italiana ha svolto un ruolo importante nella costituzione del blocco sociale leghista.
 
C)    L’insofferenza verso lo Stato. L’origine di questo fenomeno è dovuta alla forte percezione dell’inefficienza dello Stato, soprattutto nel settore dei servizi e delle infrastrutture, che è enfatizzata dalla percezione di una eccessiva pressione fiscale. Sebbene in realtà molti settori borghesi sfuggano alla tassazione, mediante l’evasione e l’elusione, beneficino di una tassazione più leggera (specie nella rendita), e si avvantaggino di forti trasferimenti statali, l’insofferenza verso lo Stato è trasversalmente diffusa dalla grande alla piccola borghesia alla classe operaia. Non si tratta di un fenomeno nuovo in quanto l’impresa capitalistica ha, da sempre, assunto un atteggiamento apparentemente contraddittorio verso lo Stato. Da una parte lo Stato è indispensabile alla accumulazione capitalistica (e al mantenimento dell’ordine), dall’altra viene ritenuto fonte di spese superflue. Il fatto è che lo Stato muta a seconda delle condizioni del ciclo dell’accumulazione e della lotta fra le classi, essendo terreno di scontro, non neutrale, tra classi e settori di classe.
 
 
 
2.    La Lega partito della Piccola e media impresa
 Le specificità dell’economia e della società italiana hanno prodotto un vasto strato piccolo borghese imprenditoriale e, alla lunga, un abbassamento della capacità competitiva e della produttività per addetto, dovuta alla ridotta capacità delle Pmi di realizzare economie di scala e di applicare nuove e costose tecnologie. Le leve competitive privilegiate dalle Pmi sono state, quindi, la svalutazione competitiva – finché c’era la lira –, i bassi salari e soprattutto l’evasione contributiva e fiscale. Tali caratteristiche hanno determinato lo sviluppo di una avversione fra le Pmi per il rispetto delle regole e conseguentemente verso l’autorità dello Stato. La concentrazione delle Pmi nel Nord ha accentuato inoltre l’avversione contro lo Stato in quanto redistributore a livello nazionale (soprattutto al Sud) della ricchezza raccolta sotto forma di tasse al Nord, area di produzione della maggior parte della ricchezza nazionale. Senza, però, considerare che lo squilibro Nord-Sud deriva da precise scelte che, sin dall’inizio del XX secolo, hanno reso funzionale il sottosviluppo del Sud allo sviluppo del Nord. Il vero tema, dunque, non è l’antistatalismo, bensì è la lotta, da parte di una frazione del capitale italiano del Nord, per assicurarsi le risorse, i trasferimenti statali. Dunque, le criticità dell’industria e dell’economia hanno finito per essere attribuite allo Stato centrale in quanto tale, anziché alle debolezze strutturali delle Pmi del Nord e alle scelte di smantellare l’industria delle partecipazioni statali. La Lega Nord si è resa espressione, sin dalla sua nascita, di queste istanze, ponendosi come rappresentate organico delle Pmi del Nord. Il carattere di partito della piccola e media impresa appare ancora più evidente, nella opposizione leghista non solo allo Stato (e ai partiti che lo occupavano) ma anche al grande capitale, come efficacemente sintetizzato da Bossi nel 1992:
“A differenza delle piccole e medie imprese e dell’artigianato che sono le vere strutture portanti del made in Italy, dobbiamo verificare che proprio il grande capitale ha divorato, attraverso i maggiori compromessi di Palazzo, gli aiuti più cospicui, lasciando a stecchetto la piccola e media impresa. […] La piccola e media impresa sono le maggiori vittime predestinate della sciagurata politica finanziaria di questo regime.”[4]
Le suddette debolezze della struttura economica italiana si sono accentuate negli anni dopo il 2000. E sono state le regioni del Nord più ricco a subire l’arretramento maggiore. Infatti, tra 2002 e 2006, fatta indice 100 la media Ue del Pil pro capite, la Lombardia è crollata da 149,5 a 135,1 e L’Emilia-Romagna da 140,2 a 126, mentre la Campania è scesa da 72 a 66,1 e la Sicilia da 70,8 a 66,9[5]. L’aumento della concorrenza dei paesi dell’Est Europa e dell’Estremo Oriente hanno pesato sull’Italia più che sugli altri Paesi “avanzati”, mettendone in difficoltà le esportazioni. Così, già indebolita da un decennio di stagnazione, l’Italia ha affrontato la crisi dei subprime, i cui effetti sono stati devastanti sul manifatturiero: il settore dei macchinari e delle apparecchiature, asse portante dell’export, è crollato del 35% tra il primo semestre del 2009 e quello del 2008. Il peso maggiore di questa debacle è ricaduto sulle piccole imprese, visto che la grande impresa ha avuto buon gioco nello scaricare le difficoltà sulle sue appendici esterne, eliminando i fornitori e delocalizzando. Ugualmente, il credit crunch, seguito alla crisi finanziaria, si è scaricato sulle Pmi molto più che sulla grande impresa, che vanta legami privilegiati e intrecci azionari con le banche. Di fronte alla crisi è apparso così evidente chi è vaso di ferro e chi vaso di coccio. Non è, quindi, un caso se il blocco sociale berlusconiano, di fronte all’“incapacità” a fronteggiare la crisi da parte del governo – del resto guidato da un esponente del grande capitale monopolistico – si sia indebolito e molti siano passati alla Lega, che, infatti, ha registrato una grande ascesa proprio tra 2009 e 2010, gli anni peggiori della crisi. Né è un caso che sull’onda dell’ultimo successo elettorale la Lega abbia intrapreso una offensiva per la conquista delle banche del Nord, attraverso il posizionamento di suoi uomini nelle Fondazioni, suscitando una rapida alzata di scudi da parte dell’establishment economico-politico[6]. Bossi, sapendo bene che il suo radicamento sul territorio passa per il controllo del credito, ha affermato: “La gente ci chiede di prenderci le banche e noi lo faremo”[7].
 
3.    Il blocco sociale neocorporativo della Lega e la lunga transizione alla Seconda Repubblica
La Lega negli ultimi anni ha accantonati i velleitarismi secessionisti, concentrandosi sulla sostanza. In primo luogo, ha tradotto l’avversione verso lo Stato di cui si fa espressione nella proposta strategica del federalismo fiscale inteso come strumento del mantenimento delle risorse fiscali al Nord e quindi alle Pmi. In secondo luogo, ha teso a costruire un “blocco sociale dei produttori” interclassista in cui, oltre al lavoro autonomo, a settori atipici del lavoro subordinato, come le partite iva, ha attirato settori non indifferenti della classe operaia. Tale operazione è stata favorita dalla particolare composizione della classe operaia, che è occupata per il 56% nelle piccole e piccolissime imprese[8]. Si tratta di un settore operaio particolarmente vulnerabile all’ideologia leghista in quanto la lotta sindacale e la coscienza politica vi sono meno sviluppate rispetto alla grande fabbrica e visto che le delocalizzazioni e la crisi hanno facilitato l’operazione di “mettere sulla stessa barca” imprenditori ed operai. La spinta alla difesa del proprio locale contro la globalizzazione ha ridato forza agli storici cavalli di battaglia leghisti, la protesta antifiscale ed antidistributiva, i veri collanti che tengono insieme il blocco sociale leghista. A questi si aggiunge l’antimmigrazione xenofoba, agitata abilmente dalla Lega, che  – è da notare – nella gestione amministrativa effettiva si guarda bene dal dargli seguito fino in fondo, conscia com’è dell’importanza dei lavoratori immigrati come riserva di forza lavoro a basso prezzo per le Pmi. Il blocco sociale leghista si regge sullo spostamento delle ragioni dell’impoverimento dei salariati dall’accumulazione capitalistica (e dalle specificità italiane in cui avviene) ad altre questioni, sostituendo al conflitto tra lavoro salariato e capitale una nuova forma di corporativismo. Nel blocco neocorporativo leghista la direzione politica è nelle mani del capitale delle Pmi, mentre la classe operaia e i settori del lavoro subordinato e autonomo occupano una posizione subordinata politicamente e ideologicamente. La questione della Lega e del leghismo può essere accostata ad un tema centrale nel discorso politico e sociologico marxista, quello del ruolo delle classi intermedie nella società capitalistica, che è stato giustamente posto in risalto da Marx, da Lenin, e in Italia da Gramsci e Togliatti. Si tratta di classi politicamente oscillanti che spesso hanno offerto la base per regimi reazionari di massa, dal bonapartismo di Napoleone III al fascismo. Certamente bisogna fare attenzione nello stabilire analogie troppo affrettate, perché il vero referente di classe della Lega non sono i lavoratori indipendenti o i settori burocratico-impiegatizi, bensì un settore del capitale. Tuttavia, è storicamente evidente come i settori non monopolistici del capitale siano sempre stati egemonizzati dal settore dominante del capitale, quello finanziario. Anche il fascismo, sebbene nascesse come espressione della piccola borghesia, divenne rapidamente dittatura del capitale finanziario e monopolistico. Oggi, sarà importante vedere come si svilupperà la dialettica di alleanze e rapporti di potere tra Lega e il resto del sistema politico ed economico. In condizioni storiche particolari, partiti espressione di settori intermedi possono acquisire e mantenere posizioni importanti per un periodo anche abbastanza lungo. Quello attuale è per l’appunto un periodo caratterizzato dalla lunga transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica, con delle particolarità che permettono l’affermazione di forze politiche sui generis.
 
4.    Debolezza delle proposte della Lega e risposta di classe
Ad ogni modo, per il momento il federalismo fiscale sembrerebbe essersi arenato sulle secche della manovra finanziaria e la Confindustria, per bocca della Marcegaglia, sembra più interessata a far passare i suoi obiettivi complessivi che al federalismo. Rimane, però, il fatto che la Lega rappresenta un forte attrattore anche per i settori di classe che sono i nostri referenti. Per questo bisogna puntare a disgregare il blocco sociale messo in piedi dalla Lega, evitando di farsi schiacciare in difesa e passando all’offensiva. Contro il corporativismo la risposta è far emergere le contraddizioni di classe e l’inconciliabilità degli interessi dei salariati e dei lavoratori autonomi con quelli del capitale, lavorando per la ricomposizione della classe operaia e dei vari settori del lavoro dipendente. Il pericolo rappresentato dalla Lega oggi non sta tanto nella secessione (parola d’ordine però sempre disponibile ad essere usata in chiave propagandistica e ricattatoria), che andrebbe contro gli interessi generali del grande capitale del Nord, quanto piuttosto nel suo contributo decisivo alla trasformazione in senso neocorporativo della società e in senso oligarchico e antiparlamentare delle istituzioni politiche italiane. Lottare efficacemente contro la Lega vuol dire che, accanto alla difesa della Costituzione, dobbiamo avere la capacità di assumere una posizione chiara e definita sui temi centrali del nostro Paese, lo squilibrio Nord-Sud, la questione fiscale, le esternalizzazioni e le delocalizzazioni, l’immigrazione. E dobbiamo dire chiaramente che il federalismo, ovvero la risposta alla crisi da parte dei settori del capitale più arretrati, non è affatto una soluzione: la legge sul federalismo è non solo macchinosa, costosa e complicata da realizzare ma aggrava la situazione italiana. Infatti, il localismo e il regionalismo, enfatizzano le cause della crisi cioè l’anarchia del mercato capitalistico e gli squilibri tipici del nostro Paese, compresa la proliferazione delle spese e dell’apparato statale, che non è un portato del centralismo statale bensì del capitalismo assistito. La soluzione non sta, quindi, nella trasformazione federalistica, basata su di un regionalismo esasperato, bensì nella capacità di aggredire il nocciolo del problema cioè la natura funzionale all’accumulazione capitalistica dello Stato attuale. Di conseguenza, non possiamo limitarci ad una difesa dell’unità dello Stato nazionale tout court. Dobbiamo soprattutto criticare teoricamente e praticamente la funzione di classe dello Stato e del debito pubblico, in primis quella di socializzazione delle perdite del capitale e di supporto alla ristrutturazione delle imprese (Fiat docet). A questo scopo, per cominciare vanno messe al centro della nostra proposta politica il riequilibrio della pressione fiscale a favore del lavoro salariato e formalmente autonomo, mediante l’aumento della progressività fiscale, e la ripresa di un ruolo di investimento produttivo, di programmazione centrale e, come prospettiva di ultima istanza, di pianificazione dello Stato.
 
Domenico Moro
 

NOTE:

[1] Giovanna Pajetta, Il grande camaleonte, Feltrinelli, Milano 1994.
[2] Su 275 regioni totali. Sito web di Eurostat, Regional gross domestic product (PPS per inhabitant in % of the EU-27 average), by NUTS 2 regions.
[3] Istat, Rapporto annuale 2009, p.52.
[4] Dal discorso di Bossi alla Camera del febbraio 1992, in U. Bossi, Il mio progetto, discorsi sulla Padania e sul federalismo, Sperling & Kupfer, Milano 1996, p.34.
[5] Sito web di Eurostat, Regional gross domestic product (PPS per inhabitant in % of the EU-27 average), by NUTS 2 regions.
[6] A. Carini, “Fondazioni, l’assedio della Lega”, Affari & Finanza de la Repubblica, 12 aprile 2010. “Bossi rilancia sulle banche del Nord”, Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2010. F. Locatelli, “>”, intervista a Giuliano Amato in Il Sole 24 Ore, 16 aprile 2010.
[7] B. Fiammeri, “> di Bossi sulle banche del Nord”, Il Sole 24 Ore, 15 aprile 2010.
[8] Istat,  Rapporto annuale 2009, p.52