Che l’assunzione da parte di Gerhard Schröder del suo nuovo posto di lavoro – presidente del Consiglio di sorveglianza della North European Gas Pipeline, consorzio russo al 51% e tedesco al 49 – costituisca una «caduta di stile», come molti commentatori hanno scritto, è certo. E tuttavia non la chiamerei proprio così, lo stile in questo caso essendo francamente secondario. C’è parecchio di più, nello specifico e in generale. L’ex cancelliere tedesco va infatti a dirigere, grazie al suo amico Putin, un colosso da 4 miliardi di euro, la pipeline che porterà gas da Leningrado alla Germania, tagliando fuori gli infuriati Polonia e Paesi Baltici e favorendo le due società tedesche partners minoritarie di Gazprom, il cui privilegiato accordo con la semipubblica società russa egli aveva favorito quando era a capo del governo. Difficile negare che più che di un «normale» cambio di professione si tratti di una ricompensa, una «tangente», diremmo noi in Italia.
Ma al di là dello scandalo personale che ora pesa come un macigno sulla già traballante Spd, c’è nella vicenda un aspetto che attiene alla battaglia ecologica del governo rosso-verde (ma anche di quello nero) e che non è da sottovalutare per le sue pesanti implicazioni. Nonostante l’appoggio ufficiale all’introduzione di energie alternative, infatti, sotto sotto lungo tutta la durata del governo Schröder è andata avanti la prassi del sostegno de facto all’industria energetica tradizionale da parte di questo o quel ministro, alla fine puntualmente ricompensato con posti di manager d’alto rango. Hans Joseph Fell, vicepresidente di Eurosolar (l’associazione che si batte per le energie alternative), cita in un articolo comparso ieri sulla stampa tedesca i casi più importanti: quando l’allora ministro dell’economia Werner Müller, dopo essersi fieramente (ma anche inutilmente) battuto contro una proposta di legge in favore delle energie alternative che il suo stesso gruppo parlamentare avanzava, ottenne – poco dopo la fine del suo mandato – un posto di primo piano nel management del gigante del carbone Rag; o quando il sottosegretario Alfred Tacke dette il nulla osta, in contrasto con tutte le istituzioni coinvolte, alla fusione fra due grosse società produttrici di combustibile fossile e in cambio divenne poi presidente della Steag, «figlia» della già citata Rag.
La lista potrebbe continuare, includendo anche gli uomini della Cdu-Csu: i principali finanziatori che compaiono nello scandalo dei fondi neri di Kohl e Stoiber provengono, per l’appunto, da società petrolifere. Ha ragione «Transparency International», la ong che si batte per la trasparenza a dire: «L’industria energetica tradizionale è attualmente il più grande corruttore del mondo». L’evidenza dei danni che essa arreca all’ecosistema è del resto tale che solo grazie ad una massiccia influenza politica essa può sopravvivere.
Nel caso di Schröder non c’è infatti solo lo scandalo di un lauto premio di fine carriera ottenuto per favori concessi a due società tedesche (e indirettamente al presidente russo) nel corso del suo mandato pubblico, ma il fatto che il consorzio che egli è ora andato a dirigere è incaricato della costruzione di una pipeline destinata a mettere in pericolo il Mar Baltico e a devastare ulteriormente il clima, il gas essendo, assieme al petrolio e al carbone, fra le più nefaste fonti di anidride carbonica. Con buona pace dell’ecologia, vanto del suo governo.
La vicenda che in questo momento turba Berlino è tuttavia la spia di un fenomeno più generale. L’intreccio fra poteri politici e poteri economici forti è ormai diventato così stretto, e così più potenti appaiono questi ultimi rispetto ai pallidi rappresentanti delle istituzioni, da rendere la politica davvero povera cosa. Ovunque. E’, anche questo, un aspetto della più nefasta delle privatizzazioni: quella della politica e di gran parte delle attività istituzionali. Sicché non fa neppure scandalo la prassi che induce le pubbliche amministrazioni a mettersi al servizio delle grandi società, quasi che lo stato – anzi, la nazione – in esse si incorporasse.
Naturale è così diventato anche l’interscambio fra ruoli pubblici e privati, una pratica che in Germania è cominciata da tempo con il passaggio sempre più frequente di sindacalisti nominati nei consigli d’amministrazione delle aziende e in seguito divenuti rappresentanti degli azionisti anziché dei lavoratori. Un recente scandalo alla Volkswagen ha rivelato la dimensione del fenomeno, segno che forse la vecchia idea comunista secondo cui le conquiste vanno strappate nel conflitto e non nella cogestione non era del tutto sbagliata.
Il caso Schröder non peserà solo in Germania. E’ una macchia per tutta la sinistra europea, Italia compresa. Perché indica, sia pure attraverso un fatto macroscopico, una degenerazione in atto: una commistione sociale fra leader politici e imprese che ha raggiunto un livello mai visto prima, una professionalizzazione dell’impegno politico divenuto sempre più mestiere retribuito, un mestiere come un altro. La recente indagine di Salvi e Villone («Il costo della democrazia») indica a qual punto ciò che un tempo era militanza è diventato impiego. E se si pensa che un dirigente Ds ha persino proposto che chi vuole candidarsi debba pagarsi da sé la propria campagna elettorale, non c’è più da meravigliarsi se il populismo e la personalizzazione dilagano, se via via muore un’idea della lotta politica che era stata del Pci ma era rimasta, e radicata, anche nella socialdemocrazia tedesca. La così detta «caduta di stile» di Schröder è, purtroppo, l’indice di un processo ben più vasto e profondo.