Lavoro, la sinistra non può tacere

La vicenda Atesia è esemplare e parla a tutti, non solo all’azienda. Quest’ultima mostra di avere una singolare concezione del «rischio di impresa». Il profitto inteso come variabile indipendente. Ne segue il ricatto di delocalizzare le attività all’estero. Al signor Tripi bisognerebbe rispondere che perderebbe non solo tutte le commesse pubbliche ma anche quelle che coinvolgono società private a capitale misto.
La vicenda parla anche ai sindacati, perlomeno a quanti storcono il naso per le «interferenze» ministeriali in materia contrattuale. Ma cosa è materia di contrattazione? In questo caso si tratta di una truffa (che tale rimane anche se favorita dalle leggi vigenti) che concerne la struttura del rapporto di lavoro. Questa non è e non deve essere materia di contrattazione, pena un’ulteriore, gigantesca regressione. La vicenda parla anche al ministro del Lavoro, la circolare del quale (incentrata sulla distinzione inbound/outbound) rischia di risolversi in un grande pasticcio. Le buone intenzioni del ministro Damiano non riducono il rischio di effetti perversi poiché la sua circolare legittima l’inganno delle collaborazioni coordinate – cioè di assunzioni di lavoro dipendente – mascherate da lavoro autonomo, come se il co.co.pro. decidesse dell’organizzazione e dello scopo del proprio lavoro e impiegasse propri mezzi di produzione. Il nodo viene al pettine e non vorremmo che il «supplemento di indagine» promesso dal ministro si risolvesse in inaccettabili concessioni all’impresa.
La vicenda parla anche alla sinistra d’alternativa che negli anni passati, folgorata dalle presunte virtù del «post-fordismo», guardò con malcelata tenerezza al «lavoro autonomo di seconda generazione», accreditando l’ideologia della presunta «vocazione antagonistica» del popolo delle partite Iva e abbandonando tanti lavoratori al supersfruttamento. E parla infine alla pubblica amministrazione e al legislatore.
Alla prima ricorda che è inaccettabile la precarietà del pubblico impiego (che oggi coinvolge la cifra record del 10% degli occupati) e impone di onorare l’impegno di farla finita con la vergogna delle esternalizzazioni. Assumere il vincolo della buona occupazione sarebbe l’unica risposta, da parte della pubblica amministrazione, alle pretese avanzate dalla destra di licenziare, tagliare, precarizzare. Al legislatore la vicenda dell’Atesia offre invece due precise indicazioni. La prima è di introdurre severe norme deterrenti contro le delocalizzazioni. La seconda è di operare finalmente un bilancio serio di tutta la produzione normativa sul lavoro seguita alla sbornia neoliberista e ispirata da un acritico favore nei confronti del lavoro «atipico». L’ideologia secondo la quale la flessibilità – cioè la precarizzazione del lavoro – genererebbe sviluppo si è rivelata priva di qualsiasi fondamento (salvo per quello che riguarda il boom dei profitti). Infondata è anche l’idea secondo cui la flessibilità favorirebbe la crescita dell’occupazione, che in Italia comincia nel 1994 e quindi precede le «riforme» Treu e Maroni, il cui unico effettivo esito consiste nella polarizzazione del mercato italiano del lavoro: cioè nella creazione di un ambito di sotto-occupazione (donne, giovani, immigrati) con scarsissime tutele, bassi salari, precarietà ed elevato rischio di perdita del lavoro.
La morale è semplice: il capitalismo vive dell’impiego del lavoro subordinato per fini di profitto. Qualcuno, oggi non di moda, parlerebbe di «sfruttamento». Resta che il capitale «sussume» il lavoro; e pretende di sfruttare negando la subordinazione, poiché ciò gli consente di massimizzare il profitto. Non è uno scandalo, è la sua vocazione. Ma la nostra – della sinistra politica, del sindacato (che ha qualche responsabilità nell’aver determinato questa situazione), ma anche di un centro-sinistra che non voglia deludere i propri elettori – è di impedirglielo.

*Deputato Prc – Commissione Lavoro Camera