“Working poors”, letteralmente “lavoratori poveri”. Una definizione fino a qualche decennio fa esclusiva, o quasi, della realtà statunitense. Oggi, non più. Perché le persone che vivono sotto la soglia di povertà pur avendo un lavoro sono sempre di più e sono sempre più diffuse. Tanto da arrivare a cifre consistenti anche in Europa. Il fenomeno, purtroppo, è noto anche in Italia, testimoniato dalle ultime rilevazioni della Banca d’Italia (2004) e dell’Istat, qualche settimana fa. A darne un quadro più globale, con tanto di analisi e differenze, è stato ieri il professore inglese Stephen Nickell, nel seminario “Lavoro e povertà” tenuto nelle aule di Palazzo Geremia, all’interno del festival dell’economia di Trento.
Nickell, presidente della Royal Economic Society e uno dei maggiori economisti del lavoro a livello mondiale, ha presentato una serie di tabelle che sostanzialmente puntano l’indice verso alcuni Paesi (Usa e Gran Bretagna su tutti, seguiti da Italia, Portogallo, Germania e Olanda) e promuovono altri (i Paesi scandinavi e del Nord Europa in generale). Nel primo gruppo i working poors sono aumentati, nel secondo praticamente non esistono.
Le statistiche dicono che a partire da metà degli anni ’80 (un po’ prima negli Stati Uniti) fino alla fine degli anni ’90 c’è stato un aumento significativo della povertà, soprattutto in Italia, Olanda e Inghilterra, e soprattutto per due motivi: aumento della dispersione del reddito, cioè del divario fra la fascia di popolazione più ricca e quella più povera, e del divario occupazionale, che significa che chi sta nella fascia più alta lavora di più e chi sta in quella più bassa di meno. Inoltre, nell’arco di 20 anni sono aumentate le famiglie con due lavoratori e anche quelle senza alcun reddito, mentre sono diminuite quelle con un solo lavoratore. L’aumento maggiore della dispersione del reddito si è registrato in America e in Inghilterra, mentre in Europa ha avuto dimensioni meno significative, ancor di meno in Italia, Olanda e Germania, dove invece il motivo principale della crescita della povertà è stato l’incremento della forbice dell’occupazione. Questo fenomeno – spiega Nickell – è dovuto principalmente a due ordini di fattori: la globalizzazione e l’evoluzione tecnologica. La prima ha iniziato il percorso di delocalizzazione di quei lavori per cui non è richiesta specializzazione, la seconda, al contrario, ha fatto schizzare verso l’alto la richiesta di competenze, con il risultato che laddove ci sono pochi lavoratori specializzati (leggi Italia) il livello salariale schizza verso l’alto, producendo disuguaglianze con tutti gli altri lavoratori. E’ anche per questo motivo che Nickell sottolinea un altro dato: l’aumento della disoccupazione fra la popolazione maschile fra i 25 e i 50 anni, quella fascia d’età statisticamente ritenuta la più produttiva.
Dove invece di working poors e di disoccupazione si sente parlare poco o nulla è il Nord Europa e proprio da là vengono, secondo Nickell, le ricette più funzionali a combattere il problema. Se infatti per quanto riguarda il problema delle competenze nel breve periodo c’è poco da fare e i primi successi si potranno riscontrare fra 20-30 anni (se sarà investito molto, in particolare nella scuola), nell’immediato la povertà si combatte aiutando e dando finanziamenti a chi la vive. Ovviamente, questi finanziamenti devono essere finalizzati a far rientrare il lavoratore nei canoni della “sopravvivenza” e l’economista inglese tira fuori dal cilindro una formula utilizzata in Scandinavia: gli aiuti indirizzati. Il meccanismo vede lo Stato finanziare il cittadino disoccupato con dei sussidi (quando addirittura non riesce a trovargli direttamente il lavoro) ma nello stesso tempo lo controlla periodicamente – e lo stimola – per verificare che sia alla ricerca di un’occupazione. E’ uno strumento che in Inghilterra è andato male ma che, secondo Nickell, è il più efficiente, trasparente e funzionale. Poi ci sarebbe da intervenire sui redditi e sulla dispersione delle competenze, ma questi, conclude lo studioso, sono obiettivi più ambiziosi e a scadenza più lontana.