Lavoratori alla MC-catena
Se lavori da McDonald’s devi stare molto attento. Sei inquadrato in un esercito di 1.500.000 di persone per una multinazionale che produce 80.000 miliardi di lire di fatturato. Rispetterai regole precise e non dovrai mai avvicinare nessun sindacalista
STEFANO PITRELLI EMANUELE ROSSI
Il Manifesto 24.3.2001
Le logiche di lavoro che la McDonald’s ha prepotentemente importato dall’America si lasciano dietro delle tracce negative che le agitazioni del 2000, culminate col maxisciopero milanese di Capodanno, non hanno spazzato via.
I McDonald’s nel mondo sono 28.000, con 1.500.000 dipendenti e 80.000 miliardi di lire di fatturato annuo. In Italia sono 295, con 12.000 dipendenti e 800 miliardi di fatturato. Secondo la Cgil, allo sciopero di Capodanno avrebbero aderito 40 locali e 1200 dipendenti. In un’intervista sul Giornale del 31 dicembre scorso, Mario Resca, 54 anni, presidente e azionista di McDonald’s Italia, denunciava: “Si va all’assalto dei simboli, dei leader, e noi lo siamo”. E aggiungeva: “Con i contratti part-time di 4 ore al giorno, i ragazzi possono continuare a studiare, guadagnando circa un milione al mese e godendo dei contributi previdenziali”. Insomma, mentre la Cgil accusava la McDonald’s di essere padrona dei tempi di vita delle persone, Resca, negli stessi giorni, sosteneva che i suoi dipendenti non hanno motivo di lamentarsi. E benché il Mc-presidente si sia dichiarato “pronto al confronto con chiunque e su qualunque tesi”, gli scioperi, secondo la Cgil, sono stati decisi soltanto dopo un’estenuante e fallimentare trattativa per stabilire delle griglie entro le quali il lavoratore possa variare i propri tempi, restando sempre a conoscenza del proprio orario di lavoro: McDonald’s, invece, è disponibile a trattare solo per i locali in gestione diretta, inibendo i licenziatari ad avviare il confronto con i sindacati.
Lavoratori intimoriti, dirigenti autoritari e sindacalisti intimiditi: è il sottobosco di una realtà apparentemente semplice e allegra. Il “consiglio” di non parlare è all’ordine del giorno, per i dipendenti e per i manager, e i sindacati spesso non hanno la possibilità né la forza di penetrare questo muro di silenzio. Un dipendente di Roma parla di “favoritismi, proprio come a scuola” e ha paura di farsi vedere mentre parla con noi: “‘Stai attento, che sono dei giornalisti ‘, mi ha detto il manager che durante il periodo di formazione ci segue come un’ombra. I lavoratori da noi sono ignoranti. Ho assistito a un’assemblea dei dipendenti con i sindacati, dove erano presenti anche i dirigenti. Ma perché i sindacalisti non li hanno mandati via?”
E se i manager si dividono e si accusano tra loro (vedi interviste sotto), i sindacati spesso appaiono impotenti di fronte alla McDonald’s: ecco cosa non è cambiato dopo il primo anno di proteste. “La visibilità dei dipendenti all’interno del sindacato è ancora molto bassa. Non abbiamo forza contrattuale e c’è molta paura di affrontare la questione degli scioperi”, osserva Silvana Morini, della Segreteria Filcams Cgil Lazio. Claudio Bazzichetto, sostituto segretario Filcams Cgil Lazio, prova a spiegare le ragioni del malcontento: “Alla McDonald’s, l’applicazione dei contratti e delle leggi, in particolare dello Statuto dei lavoratori, è sempre molto aleatoria. Quando sono venuti in Italia, neanche pensavano che il sindacato dovesse essere presente. La loro concezione di stampo americano prevede un ruolo autoritario: non esistono il contratto né la professionalità, esisto soltanto io che comando e dico ‘fai questo'”. Spesso il recupero delle ore non è conforme al contratto nazionale: ci sono circa 20/25 turnazioni nella fascia giornaliera, durante le quali i lavoratori vengono spostati da un turno all’altro senza nessun criterio (il cosiddetto ‘orario a chiamata’) e devono essere sempre a disposizione, nell’arco dell’intera giornata, per 4 delle 16 ore in cui è aperto il ristorante. In questa situazione di flessibilità estrema, alcuni diritti, come la possibilità di studiare, di cui parla lo stesso Mario Resca, diventano una chimera. Sulla maggiore o minore combattività dei sindacati, a cui si riferisce uno dei manager intervistati, Bazzichetto afferma: “Dipende dal sindacato. Come a Bologna, anche negli scioperi di Roma abbiamo riscontrato una posizione filopadronale della Uil: esiste e ne prendiamo atto. Noi ragioniamo in prospettiva unitaria, poi è chiaro che ciascuna confederazione ha la sua impostazione”.
Ai Mc-lavoratori però, delle beghe sindacali importerà poco. Ben altre infatti sono le loro preoccupazioni. “I dipendenti non se vanno via necessariamente di propria volontà – spiega la Morini – c’è un condizionamento psicologico che crea grandi problemi al lavoratore, spesso giovane e alla prima esperienza lavorativa, che non ha conoscenza dei suoi diritti e che nella maggior parte dei casi non è iscritto al sindacato. Una strategia del terrore che è molto utile all’azienda: se i ragazzi vengono posti in una situazione di disagio e sfruttamento è chiaro che non faranno altro che pensare a come uscirne. Anche qui a Roma, infatti, abbiamo fatto denunce di mobbing”. Spesso, c’è anche differenza tra i locali appartenenti alla corporation e quelli in mano ai franchisee: “La company apre i ristoranti – continua Bazzichetto – poi li cede a licenziatari che spesso non hanno esperienza di gestione del personale, sgridano continuamente i dipendenti o fanno discriminazioni”.
Secondo Luca Meldolesi, docente di economia all’università di Napoli e consulente della presidenza del consiglio, “il problema è che McDonald’s ritiene di non doversi collegare a sufficienza al tessuto sociale del nostro paese”. “Per comprendere i comportamenti della McDonald’s – continua – bisogna conoscere il funzionamento del mercato del lavoro Usa, molto diverso dal nostro per logiche e tradizioni culturali. Le multinazionali che sono riuscite a integrarsi nel tessuto sociale, sono andate meglio nel nostro paese. Da questo punto di vista, non mi sembra che a McDonald’s convenga esagerare. Ecco, se dovessi suggerire all’azienda cosa fare, direi che dovrebbe studiare un po’ di più l’Italia”. Non c’è il rischio che il modello McDonald’s possa influire sul comportamento di altre aziende, creando una specie di trend? “Il rischio è normale – conclude Meldolesi – nel processo di interazione tra diversi paesi”.