Lavorare in Italia: adulti tristi, giovani a spasso e donne pagate poco

Giovani disoccupati o precari, donne discriminate e sotto pagate, ultracinquantenni scontenti della propria condizione lavorativa. Sai che novità, verrebbe da dire, ma se queste conclusioni vengono tratte dall’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) a termine di un’indagine campionaria commissionata direttamente dal ministero del Lavoro, i dati non possono – e non devono – essere sottaciuti. Quarantamila interviste, per quello che è il primo passo di una ricerca in tre tappe che si concluderà nel 2008, per fotografare il mondo del lavoro in Italia, focalizzando l’attenzione su queste tre categorie: giovani, donne e over 50. Partiamo dai primi.
Un giovane (dove per giovane si intende una fascia di età fra i 15 e i 24 anni) su 4 è disoccupato e nel Sud il tasso di disoccupazione giovanile sale al 38%. La principale causa di inattività è l’inesperienza: un intervistato su due non ha mai lavorato in vita sua e questo è un ostacolo per trovare un’occupazione. C’è da dire però che anche le scelte personali influenzano questo dato, visto che il 58% dei ragazzi in cerca di lavoro accetterebbe un impiego «solo se si trattasse di una conveniente offerta lavorativa in termini economici e contrattuali». Una pretesa mica da poco, visti i tempi. Un altro capitolo della ricerca si occupa infatti di lavoro standard e lavoro atipico e proprio là vediamo che fra i 15 e i 29 anni ben il 26, 2% dei contratti è atipico, una percentuale molto più alta (circa il triplo) rispetto agli adulti. Un divario che ritroviamo cambiando il termine di paragone dalla forma contrattuale al reddito: un giovane con un contratto atipico guadagna in media 11.131 euro netti all’anno, un suo coetaneo “standard” ne prende 12.657. E, fra l’altro, il gap salariale fra dipendenti regolarizzati e atipici aumenta con l’avanzare dell’età. Nonostante la disponibilità di 7 ragazzi su 10 a cambiare città, o anche nazione, per trovare lavoro, e nonostante la ricerca di un impiego duri per loro meno dei trentenni (10 mesi contro 16, anche se una menzione a parte la merita di nuovo il Mezzogiorno dove la caccia dura in media 16 mesi anche per i ventenni) il lavoro giovanile resta ancora una chimera. Una variabile determinante per il successo è comunque l’istruzione, nel senso che il 45, 8% del campione racconta di non essere stato assunto perché la formazione richiesta era superiore alla sua. Peccato però che un’altra tabella della ricerca indichi che solo il 54, 7% dei laureati ha un contratto a tempo indeterminato, mentre il 7, 2% lo ha a tempo, e molti altri precari si nasconderanno fra il 36% dei laureati che ha un rapporto di consulenza. Quindi, come scrive lo stesso Isfol «si smentisce il vecchio adagio “studiare per avere un posto sicuro”».

Come fra i giovani così fra gli adulti, le donne vivono una condizione peggiore degli uomini. Fra i 19 e i 24 anni l’incidenza del lavoro atipico è maggiore fra le ragazze rispetto ai ragazzi, così come sono di più gli uomini che svolgono professioni qualificate piuttosto che le donne, nonostante questi ultimi abbiano in genere un grado di istruzione inferiore. Ma è dal punto di vista salariale che la differenza diventa quasi un affronto. Al netto salariale il gap è di 3.800 euro se si analizza i contratti a tempo indeterminato, di 10mila se si sta parlando di lavoro autonomo. In percentuale gli uomini con un lavoro dipendente guadagnano il 23% in più delle donne, gli autonomi il 40% e i collaboratori il 24%. Il 61% delle donne sono occupate, e questa è una bassa percentuale. Fra coloro che non hanno un lavoro, il 40% si giustifica con il fatto di dover «prendersi cura dei figli», ma ben il 35%, soprattutto le più giovani e le più adulte, specialmente se istruite e residenti nel Mezzogiorno, si dichiara «scoraggiata per l’assenza di opportunità lavorative». L’esclusione delle donne dal mercato del lavoro ha altre due cause sotterranee, legate fra di loro: la maternità e le discriminazioni. Il 10% delle donne che lavoravano prima della nascita del figlio non lo fa più dopo il parto e, guarda caso, è la stessa percentuale delle donne che durante la maternità non erano sotto contratto e quindi «con molta probabilità oggetto di politiche di discriminazione mirate al non dover sostenere i costi dell’assenza per maternità».

Per quanto riguarda gli over 50, fino ai 64 anni, il 55, 3% degli intervistati è occupato, mentre fra di loro si registra un alto tasso di pensionati nel Nord e nel Centro, mentre è il Sud a detenere la più alta percentuale di disoccupati.

Infine, è opportuno tornare sulle cifre della precarietà per parlare della «probabilità di transizione» da una forma contrattuale all’altra. Un dato su tutti: se nel lungo periodo il 76, 5% dei contratti atipici si trasforma in standard, nel lustro 2000-2005 questa soglia si è abbassata fino al 60, 1%. Una tendenza insopportabile per un paese civile, anche se tanto civile non è se, per citare l’ultimo dato, nel settore Università e ricerca, fiore all’occhiello e motore di ogni Paese che guardi al futuro, la precarietà riguarda il 35, 1% dei contratti.