L’auto che viene dall’Est

Il 2005 sarà ricordato come un annus horribilis per l’industria automobilistica: calo delle vendite, flop di modelli importanti come la Smart della Mercedes o la Phaeton della Volkswagen, fallimento della britannica Rover, chiusura di numerosi stabilimenti e i tagli di personale per centinaia di migliaia di unità, scandali che hanno creato terremoti all’interno di alcuni dei maggiori gruppi, come l’ormai noto affaire a luci rosse che ha travolto la Volkswagen decimandone i vertici. E il 2006 rischia di non essere migliore. La minaccia ancora una volta viene dall’Asia: la Toyota punta a diventare il primo produttore di veicoli al mondo, scalzando la General Motors , e i costruttori indiani e cinesi sono ormai pronti a invadere Stati Uniti ed Europa con i loro modelli a basso costo. In questo scenario la fine dell’anno in casa Fiat si segnala, oltre che per i buoni risultati conseguiti sul lato vendite, proprio per la conclusione di importanti accordi con produttori asiatici: dall’indiana Tata alla giapponese Suzuki, fino al colosso cinese Saic.

L’industria automobilistica cinese

Ad agitare più di tutti il sonno dei top manager dei grandi produttori di auto sono i cinesi, che per la prima volta nella storia hanno fatto il loro debutto in un salone automobilistico europeo lo scorso settembre a Francoforte. La Jiangling Motors Corp con il Landwind, un fuoristrada low cost che arriverà in Italia nel 2006 al prezzo di circa 18.000 euro, la Geely con ben cinque modelli e la Brilliance con la Zhonghua, una limousine concepita appositamente per il mercato del Vecchio Continente e disegnata da Giugiaro. Ma l’anno prossimo anche la cinese Great Wall Motor inizierà a vendere auto Suv e pick-up sui mercati di Italia e Spagna: la società cinese, quotata a Hong Kong, prevede di poter vendere nel nostro paese in tre anni tra le 10.000 e le 12.000 unità, tra Suv Hover e pick-up Deer. I produttori cinesi fanno così paura che la Commissione europea sta valutando la possibilità di un’azione presso l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) contro la politica del paese asiatico nel settore automobilistico. E se l’arrivo delle automobili made in China sarebbe un duro colpo per l’industria delle quattro ruote in Europa, negli Stati Uniti potrebbe rappresentare la mazzata finale ai tre grandi produttori americani (Chrysler, Gm e Ford), che da alcuni anni stanno perdendo quote nel loro mercato interno a vantaggio dei rivali giapponesi e coreani. Ormai il primo produttore di auto in Nord America per unità vendute è la Toyota, che negli Usa ha fatto addirittura le scarpe alla General Motors, le cui vendite sono calate nel 2005 a 14,7 milioni, il livello più basso mai raggiunto dal 1998. Secondo Dieter Zetsche, il manager tedesco a capo della Chrysler (dal prossimo gennaio amministratore delegato dell’intero gruppo DaimlerChrysler) «l’unico rimedio contro la concorrenza asiatica è ridurre i costi»: in termini aziendali questo significa tagli pesanti di personale.

La crisi dei grandi produttori

I capi delle case automobilistiche le definiscono «misure strategiche per liberarsi della crisi». Licenziare sembra essere diventata la mossa preferita dai manager per risanare i bilanci delle aziende: a progettare i tagli maggiori nei prossimi anni sono Gm (30.000 posti), Ford (tra 25 e 30.000 negli Usa e 2000 in Europa), DaimlerChrysler per Mercedes (8500 i tagli previsti, ma secondo ultime indiscrezioni potrebbero essere molti di più e interessare non solo gli stabilimenti tedeschi) e Volkswagen (10.000 per gli stabilimenti del Gruppo e più di 1000 per Seat). Ma la febbre da licenziamenti sembra contagiare uno dopo l’altro tutti i gruppi automobilistici (Fiat inclusa), visto che – fanno notare gli addetti ai lavori – rappresenta certamente una politica più semplice rispetto a rivedere strategia di produzione e di vendita. Sono nati così manager che sono dei veri specialisti nel tagliare posti di lavoro: è il caso di Fritz Henderson, il capo della Gm Europa, che dopo aver lasciato a casa 9000 lavoratori della Opel in Germania, si è guadagnato la promozione a Detroit, dove dovrà fare i conti con una perdita di 4 miliardi di dollari registrata nell’ultimo anno e un rating da tempo declassato al livello «junk», ovvero spazzatura, dalle principali agenzie di valutazione internazionali.

Ma è davvero la politica dei tagli al personale quella più adatta per uscire dalla crisi? L’«evidenza empirica» – dicono gli economisti – mostra il contrario: licenziare i propri dipendenti non ha certo aiutato a impedire il calo delle vendite. Sono le strategie dei vertici societari che meriterebbero una revisione sostanziale: è forse servito alla Mercedes lasciare a casa migliaia di dipendenti per evitare lo smacco di vedersi scavalcare dalla storica concorrente Bmw nel primato europeo nella vendita delle berline di lusso? Il fallimento della Phaeton, che sarà ritirata nel 2006 dal mercato americano, ha forse convinto i vertici della Volkswagen a rivedere la loro strategia nel segmento del lusso del mercato delle automobili? Ed è possibile che l’amministratore delegato di Gm, Rick Wagoner, in un periodo in cui il costo del petrolio sfiora i 60 dollari al barile, si prepari a lanciare la più grande jeep mai realizzata prima, un veicolo che si caratterizza per un alto consumo di carburante? Nel successo dei produttori asiatici – dicono gli addetti ai lavori – non c’è solo un minor costo del lavoro, ma la capacità di prevedere le tendenze del mercato e dare risposte alle esigenze degli automobilisti: tra le auto più vendute negli Stati Uniti c’è Toyota Prius, un’autovettura ibrida dotata di doppio motore, a benzina ed elettrico. L’auto ecologica rappresenta, secondo gli esperti del setttore, il futuro della mobilità mondiale, e nel prossimo anno la sola Toyota prevede di vendere cinquecentomila esemplari di auto ibride nel mondo.

Il primato mondiale di Toyota

Non è un caso dunque che il marchio Toyota sia da tempo il primo in Nord America nella categoria auto di lusso e che nel prossimo anno la casa automobilistica giapponese si prepari ad attaccare sul mercato europeo anche i big tedeschi, sfruttando il vantaggio di carattere produttivo rappresentato dalle due catene di montaggio dell’impianto di Tsutsumi da cui esce un’auto ogni 53 secondi. Per il 2006 l’obiettivo dei giapponesi è divenire il primo produttore di automobili al mondo, togliendo la leadership alla General Motors. Toyota ha infatti alzato il proprio target nel nuovo anno a 9,06 milioni di veicoli prodotti. Il che significherebbe un incremento del 10% rispetto agli 8,28 milioni di automobili prodotte previste per il 2005, in concomitanza con un taglio di un milione di veicoli all’anno entro il 2008 annunciato dal colosso di Detroit. Per superare il produttore americano, la casa nipponica punta anche sull’apertura di un nuovo impianto in Texas, in grado di aggiungere 200.000 unità alla sua capacità produttiva annuale. E sempre dal 2006, Toyota comincerà a commercializzare tremila Prius ibride in Cina, attraverso la joint venture Sichuan Faw Toyota, a un prezzo che oscillerà intorno ai 30.000 euro

Il mercato cinese

La Cina del resto, oltre a una minaccia commerciale per l’industria automobilistica mondiale, rappresenta anche una grande opportunità in termini di produzione e di vendita dei veicoli. È un dato di fatto che i maggiori gruppi occidentali e giapponesi abbiano costituito nel paese della grande muraglia numerose joint venture con costruttori locali. La stessa General Motors, che come detto è sprofondata in una crisi senza precedenti, quest’anno si attende di crescere sul mercato cinese del 20%, attribuendosi una quota di mercato dell’11% contro il 9,3% del 2004.

DaimlerChysler, per sostenere la domanda di automobili dei cinesi, ha addirittura costituito nel paese asiatico – primo gruppo automobilistico a farlo – una filiale della propria società finanziaria DaimlerChysler AutoFinance, visto che ad oggi solo il 10% dei veicoli venduti in Cina viene finanziato attraverso il credito al consumo. Nella prospettiva di rafforzare la presenza nel vasto mercato asiatico si inquadra anche il recente accordo concluso tra Iveco (controllata da Fiat) e Saic (Shanghai Automotive Industry Co.) per rilevare il 67% della joint venture Chongqing attiva nella produzione di veicoli industriali

La svolta in casa Fiat

Gli ultimi mesi del 2005 sono stati caratterizzati in casa Fiat dalla chiusura di numerosi accordi industriali mirati con gruppi stranieri: non solo Saic, ma anche i giapponesi della Suzuki, con i quali Fiat ha prodotto il suo primo Suv, Sedici, che ha debuttato nei giorni scorsi al MotorShow di Bologna, gli indiani della Tata e gli americani della Ford. Il Lingotto sembra essersi lasciato alle spalle i periodi più bui e avere imboccato la strada della svolta, come testimoniano il successo dei nuovi modelli (Panda, Grande Punto, Croma, ma anche Lancia Brera e Alfa 159) e i risultati del terzo trimestre dell’anno: il risultato della gestione ordinaria del gruppo positivo per 232 milioni di euro, rispetto ai 30 di perdita del 2004, il risultato netto positivo per 0,8 miliardi, il debito industriale dimezzato a 4,7 miliardi, e la perdita di Fiat Auto ridimensionata da 282 a 85 milioni. A novembre, inoltre, il gruppo Fiat ha visto risalire la sua quota di mercato in Italia sopra il 30%, per la prima volta dal gennaio 2004, in un mese contraddistinto da un rialzo delle nuove immatricolazioni del 3,1% su base annua. Sul mercato europeo la quota di mercato dell’azienda torinese ha invece raggiunto a novembre il 7,1%, contro il 6,8% registrato nello stesso periodo del 2004 e il 6,9% del mese di ottobre, mentre il mercato automobilistico europeo ha registrato una nuova flessione del 2,8% dopo il meno 2,6 di ottobre. Tutto ciò mentre a Torino è in discussione il futuro del posto di lavoro di almeno mille dipendenti dell’azienda. Un’altra «misura strategica per liberarsi della crisi».