L’Arabia saudita contro i raid anglo-americani

L’Arabia saudita, pilastro della presenza americana nel Golfo, ha criticato ieri per la prima volta apertamente i raid Usa contro l’Afghanistan sostenendo che essi stanno colpendo la popolazione civile afghana. Lo ha sostenuto il ministro saudita degli interni, Principe Nayef, aggiungendo poi: “Avevamo sperato che gli Stati uniti sarebbero stati capaci di prendere i terroristi in Afghanistan senza arrivare a quanto sta accadendo perché il popolo afghano non ha colpa per quel che è successo”. E’ la prima volta che l’Arabia saudita, la terra dove quattordici secoli fa nacque l’Islam, esce dal, comunque già chiaro, silenzio osservato dall’inizio dei bombardamenti Usa sull’Afghanistan per schierarsi apertamente contro i raid anglo-americani.
Del resto, già la scorsa settimana, l’Arabia saudita aveva espresso con chiarezza il suo nervosismo invitando il premier britannico Tony Blair a non presentarsi nella capitale Riyadh nel corso del suo recente giro nel Golfo. L’Arabia saudita teme infatti che la guerra all’Afghanistan non soltanto mini la solidità del regime monarchico (con un reddito pro-capite sceso dai 28.000 dollari degli anni ottanta a sotto i 10.000 dello scorso anno, con 100.000 diplomati che ogni anno si riversano in un mercato del lavoro che offre poco più di 60.000 nuovi posti di lavoro, con oltre il 60% della popolazione sotto i 25 anni) ma che destabilizzi l’intera area soprattutto se gli Usa, come hanno minacciato di fare e come vorrebbe Israele, dovessero attaccare Iraq, Siria o Iran. Per questo il re Fahd, ma più probabilmente il principe ereditario Abdallah noto per la sua onestà e per le sue riserve sulla politica Usa nella regione, avrebbero sino ad oggi impedito a Washington l’uso del comando operativo costruito in gran segreto dall’esercito americano nella base di al Sultan. Un divieto che sta pesando molto sulla condotta della guerra in Afghanistan. A suscitare le preoccupazioni di Riyadh, oltre ai periodici attentati contro gli stranieri, vi è senza dubbio la crescita dell’opposizione alla guerra dell’establishment religioso incalzato dalle sempre più forti correnti radicali come quella che fa capo allo sheik Hamoud bin Ogla al-Shuaibi autore di una “fatwa”, un editto religioso, sulla base del quale i musulmani che collaborano nella guerra con gli infedeli Usa diventano loro stessi infedeli. Le occasioni di frizione tra Stati uniti e Arabia saudita si vanno del resto moltiplicando di pari passo con l’entrata nelle indagini di un numero sempre maggiore di sospetti con la cittadinanza del regno dei Saud e con numerosi piccoli ma significativi sgarbi e incidenti diplomatici tra i due paesi. Tra gli ultimi episodi di tensione vi è senza dubbio la restituzione al mittente dell’assegno per dieci milioni di dollari che il principe Al Walid bin Talal Abdul Aziz, membro della famiglia reale saudita, aveva consegnato al sindaco di New York, Rudolf Giuliani nel corso di una visita al luogo del disastro delle torri gemelle. All’origine dello schiaffo l’invito rivolto agli Stati uniti dal principe saudita, il sesto uomo più ricco del mondo, a “rivedere la politica nei confronti della Palestina e ad adottare una posizione più equilibrata (tra le due parti ndr)”. Invito che Giuliani ha definito “molto irresponsabile e molto, molto pericoloso
” restituendo l’assegno. Una risposta che conferma invece quanto quel ripensamento sarebbe invece necessario.
Il secondo motivo di tensione è venuto in questi ultimi giorni da una nuova lista di gruppi e individui, presunti finanziatori di Bin Laden, redatta dal ministero del tesoro Usa con l’invito a bloccarne i rispettivi conti. Cosa che l’Arabia saudita e gli altri cinque paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Qatar, Oman, Emirati arabi uniti, Kuwait) hanno deciso di fare sabato scorso (insieme alla decisione storicamente assai più importante di arrivare ad una moneta unica entro il 2010). Il problema è che nella lista con i 39 individui e gruppi sospetti consegnata venerdì a Riyadh dal Ministero del tesoro Usa troviamo anche Yasin al-Qadi, importante uomo d’affari saudita che ha gestito a lungo una fondazione alla quale hanno contribuito le più importanti famiglie del regno e che (forse la sua vera colpa) avrebbe a lungo finanziato la resistenza islamica palestinese di Hamas. Il governo saudita non ha certo visto di buon occhio il fatto che gli Usa hanno presentato e discusso la lista con i loro alleati europei ma senza avvertire Riyadh del suo contenuto, com’era sempre avvenuto in precedenza. Ad aumentare il nervosismo della monarchia saudita vi sono poi le voci di un’altra lista segreta redatta dagli Usa con numerose società saudite divenute ora “sorvegliate speciali” del ministero del tesoro Usa. Forse troppo per il paese che si è accollato nel 1990 quasi tutte le spese della guerra del Golfo e che con i suoi acquisti di armi e aerei ha tenuto in piedi in questi dieci anni il complesso militare industriale degli Stati uniti. E qualcuno nei deserti d’Arabia comincia a pensare che forse sarebbe stato un investimento migliore tenere buono “il lupo” iracheno (rimettendogli i debiti della prima guerra del Golfo con l’Iran) piuttosto che finanziare il sempre più esoso e non riconoscente “pastore” americano.