L’antidoto e il paradosso

Il fugace ascolto, qualche sera fa, di una serie di interviste volanti trasmesse da Radio radicale ha offerto un panorama tutt’altro che stupefacente. All’intervistatrice che poneva domande sugli orientamenti elettorali in vista delle politiche, giungevano alternativamente quattro risposte: la grande maggioranza si dichiarava ben decisa a votare a destra (i più per Forza Italia); molti altri rispondevano che non andranno alle urne; qualcuno si diceva ancora incerto sul da farsi; una sparuta minoranza, infine, si rifiutava di rivelare le proprie intenzioni. Se dovessimo considerare il campione rappresentativo, ci sarebbe poco da stare allegri.
Anche il dato che più colpiva nell’insieme delle risposte è ormai acquisito. La connotazione di sinistra dell’astensionismo non è più una sorpresa per nessuno. Da anni sappiamo che quello con cui abbiamo a che fare è, nelle sue motivazioni, un astensionismo democratico e critico. E proprio questa circostanza giustifica l’impegno di tanti a sinistra – individui e forze politiche – che sperano di indurre quest’area a un ripensamento. Il punto è che molto spesso si fa ricorso, a tal fine, ad argomenti di dubbia efficacia. Anzi, a ragionamenti che rischiano di sortire l’effetto opposto: di rafforzare nelle sue convinzioni chi inclina a disertare le urne, e di alimentare ulteriormente la già diffusa propensione all’astensionismo.
Che cosa si suole obiettare all’astensionista di sinistra? Si usa richiamarlo alle profonde differenze che separano i due maggiori schieramenti e alle gravi conseguenze che deriverebbero dall’eventuale affermazione della destra, vittoria – si argomenta – resa tanto più probabile proprio dal diffondersi dell’astensionismo. L’idea è che, agitando lo spettro della regressione politica, sociale, civile ed etica, mostrando come e perché, in caso di vittoria del Polo, la qualità della vita della grande maggioranza degli abitanti di questo paese farebbe, in tutti i sensi, un deciso salto indietro, si possa fare breccia nell’orientamento al non-voto e riguadagnare consensi alla sinistra. Ma in questo ragionamento si annida un insidioso paradosso, che minaccia di trasformare il critico dell’astensionismo nel suo più zelante apologeta.
Nel tentativo di scuotere l'”astensionista democratico” dall’indifferentismo, il suo critico fa appello al realismo. Non evoca soltanto – e del tutto a ragione – la distanza che corre tra il centrosinistra e la destra. Suggerisce anche che la scelta va fatta tra le formazioni politiche che hanno concrete chances di vittoria. Un esempio di questa impostazione è l’appassionato intervento di Marcello Cini sul manifesto del 22 aprile. Concludendo il proprio ragionamento, Cini spiega che tema di elezioni politiche non è il giudizio sui risultati conseguiti da chi ha governato nella precedente legislatura, ma la scelta di chi governerà nella successiva. Le elezioni – scrive – non sono esami in cui valutare in termini assoluti l’operato di una maggioranza di governo, bensì – piaccia o meno – il momento nel quale si sceglie “fra alternative per il futuro”.
Che cosa ne discende secondo Cini? Che sarebbe sbagliato astenersi per il semplice fatto che non si è contenti del modo in cui il centrosinistra ha governato il paese in questi ultimi cinque anni. Anche Cini ne è scontento. Non ha difficoltà a definire “scarsi” i risultati raggiunti; e arriva a dire che, “nonostante il nome”, i ds hanno “perduto una identità di sinistra”. Ma, siccome sa che scegliere è inevitabile e che bocciare gli uni significa “promuovere, a pieni voti”, gli altri, non ha tentennamenti: voterà per il centrosinistra. Quindi ammonisce: quanti si rifiutano di votare perché non comprendono che proprio nella necessità di una scelta risiede “la regola della democrazia”, costoro non sono affatto più coerenti di chi, al contrario, di tale necessità è consapevole e si fa carico: sono soltanto anime belle, gente che non si avvede di “scambiare i propri sogni con la realtà”.
Fin qui l’attacco parrebbe colpire solo le remore dell'”astensionista democratico”. In realtà, il bersaglio è più grosso. Anima bella non è soltanto chi si rifiuta di scegliere, ma anche l’elettore di sinistra che, deciso a votare, volesse tuttavia optare per una formazione politica non alleata al cartello che compete con la destra per il governo del paese: chi dovesse, cioè, votare per Rifondazione comunista, partito al quale Cini non risparmia accuse di fuoco e la cui stessa esistenza egli considera frutto di una “sciagurata decisione” (ma – gli si vorrebbe chiedere – se Rifondazione non esistesse e fosse d’altronde vero che i ds non sono più di sinistra, chi rappresenterebbe oggi la sinistra italiana nelle istituzioni?). A fugare ogni dubbio in proposito è l’esempio di Ralph Nader, da Cini individuato come terzo incomodo nella disfida tra Bush e Gore, come oggettivo alleato del primo e come responsabile della sua vittoria. Ma qui casca l’asino.
Finché tutto il ragionamento è tenuto entro i limiti del confronto tra le due maggiori coalizioni politiche, è impossibile valutare spregiudicatamente i loro vizi e le loro virtù. La non pertinenza di tale valutazione, del resto, Cini teorizza quando sottolinea la differenza tra il voto e un esame scolastico. Ma così si dà corpo a una idea del voto politico come scelta del meno peggio, in base alla quale sarebbe legittimo, anzi obbligatorio, votare per un partito di destra (che so, liberista e privatizzatore, guerrafondaio, magari xenofobo) purché si dimostri che è tuttavia il meno reazionario tra quelli in grado di aspirare al governo di un paese. Comunque si valuti un’idea di questo genere, è molto dubbio che essa potrebbe distogliere alcuno dal proposito di astenersi. L’immagine della politica che ne viene fuori è infatti proprio quella, intrisa di rassegnazione, che spinge tanti alla rinuncia e alla chiusura risentita nelle proprie piccole cerchie.
A questo punto non è difficile capire perché il critico “realista” dell'”astensionista democratico” si trasformi, involontariamente, in un suo alleato. Il fatto è che entrambi condividono la stessa rappresentazione del quadro politico, ristretta alle due coalizioni maggiori. Così, per cinismo o per scetticismo, entrambi vedono soltanto forze politiche deludenti, inadeguate, forse avviate verso la reciproca omologazione (lo stesso Cini scrive che, per colpa dei ds, sta ormai venendo meno la stessa distinzione fondamentale “fra sinistra e destra”). E, lungi dall’esprimere punti di vista antitetici, si dividono in piena armonia tra fughe dalle urne e nasi tappati. Se le cose stanno così, non c’è che un antidoto contro il dilagare dell’astensionismo di sinistra e per recuperare quella ingente massa di potenziali elettori democratici e critici (si parla di circa quattro milioni di voti) che, restando fuori dalla contesa elettorale, rischiano oggi di contribuire all’eventuale vittoria delle destre.
Se è vero che c’è in Italia una drammatica questione sociale, fatta di nuove povertà (secondo l’Istat è povero oltre il dieci per cento della popolazione), di salari e stipendi bassi e in diminuzione, di pensioni inadeguate, di precarietà e disoccupazione, di discriminazione delle donne e dei giovani, di sfruttamento del sommerso e della manodopera immigrata, di incidenti spesso mortali sul lavoro, allora si tratta di andare incontro nei fatti alla richiesta di equità e di garanzie che emerge pressante dal paese. Certo, questo compito riguarda il futuro governo, che speriamo sarà ancora nelle mani del centrosinistra. Ma è tanto più probabile che chi ci governerà se ne farà effettivamente carico, quanto maggiore sarà la forza di Rifondazione, cioè dell’unico partito che ha incessantemente posto queste istanze al centro delle proprie battaglie. Non si tratta di preconcetti né (come dimostra la decisione unilaterale di Rifondazione di non presentarsi nei collegi uninominali della Camera) di invocazioni settarie. Al contrario, è la speranza che la sinistra italiana torni ad agire unitariamente in difesa degli interessi più deboli e ritrovi la capacità di parlare al suo popolo, è proprio questa speranza a dettare oggi la scelta per una formazione politica che certo non ha perduto la propria “identità di sinistra” e che, pur piccola, è riuscita in tutti questi anni a tenere viva un’idea della politica come strumento di progresso sociale e civile nell’interesse generale del paese.