25 anni fa moriva il grande cantautore belga. Fu antimilitarista e critico feroce della borghesia
«Io non porto messaggi, lo lascio fare ai postini». Il sorriso sarcastico di Jacques Brel, la sigaretta sempre accesa e le dita gialle di nicotina gettavano nel panico i giornalisti “impegnati” che tentavano di stanarlo sulle questioni politiche. Probabilmente riuscirebbe ancora a disorientare anche gli organizzatori dell’imponente serie di manifestazioni organizzate a Bruxelles quest’anno, il venticinquesimo dopo la sua morte. Si prenderebbe gioco di tutti, compresa sua figlia France che, con passione, ha dato un notevole contributo alle iniziative. Perché il cantautore era davvero così: imprevedibile e, soprattutto, attento a non farsi strumentalizzare. Tra gli italiani la sua faccia era divenuta popolare alla fine degli anni Sessanta, attraverso il cinema. Per la voce c’era voluto più tempo e il grande pubblico si era accorto della bellezza delle sue canzoni solo grazie all’impegno di un pugno di infaticabili e appassionati divulgatori guidati da Gino Paoli, Duilio Del Prete ed Herbert Pagani. E in quel tempo, nelle fiammate della lotta di classe che divampava per le strade, negli scontri con i fascisti o nelle fughe per i vicoli delle nostre città con la Celere alle calcagna, qualche volta ci si sentiva un po’ come lui sullo schermo con la Banda Bonnot, contro quei borghesi «che sono come maiali, più invecchiano e più assomigliano alle bestie: hanno bruciato i nostri vent’anni…».
Per queste ragioni quest’anno, a 25 anni dalla sua scomparsa, lo sentiamo un po’ nostro perché in Brel c’è un pezzo della storia di molti di noi.
A distanza di anni alcune sue canzoni sono sopravvissute alla polvere del tempo. E’ il caso di “Ne me quitte pas”, che Paoli ha trasformato in “Non andare via”, o di “Le plait pays”, una descrizione della sua terra natale, il Belgio, paese dove le cattedrali sono le uniche montagne, dove il cielo è così basso e i canali si perdono. Non era più un ragazzino, negli anni Sessanta. Era nato, infatti, a Schaerbeek, nel 1929, figlio di un piccolo industriale che produceva cartoni. Appena possibile aveva scelto una strada diversa cominciando a comporre canzoni da cantare nelle bettole di Bruxelles. Erano brani che mescolavano, come si direbbe oggi, l’amore e i sentimenti con il sociale. Cantava la vita da un angolo di visuale critico e radicato nella realtà. Forse per questo il suo primo disco arriva relativamente tardi, nel 1954, dopo ottantadue provini falliti, quando ha già venticinque anni e si è trasferito a Parigi. Il disco, pubblicato dalla Philips, vende la non straordinaria cifra di duecento copie… Eppure non s’arrende. Juliette Gréco incide un suo brano e nella capitale francese questo stralunato cantautore si fa voler bene dai grandi protagonisti della scena musicale francese di quel periodo, da Dario Moréno a Catherine Sauvage, da Maurice Chevalier a Michel Legrand, da Serge Gainsburg ad Aznavour e Zizi Jeanmaria. Nel 1965, incurante della guerra fredda e delle tensioni internazionali, accetta di andare in Urss, oltre che in Canada e negli Stati Uniti. Più volte annuncia la sua intenzione di non cantare più in pubblico e altrettante volte si smentisce da solo, mentre anche il cinema inizia a utilizzare la sua faccia e la recitazione fredda e tagliente come un coltello. Dopo “La Banda Bonnot” di Fourastié interpreta film con registi come Cayatte, Molinaro, Carné, Lelouch. Nel 1968 mette in scena “L’uomo della Mancia”, una sua versione del musical “The Man of the Mancha”, ma il successo non serve a nascondere la realtà di un tumore che ha iniziato a mangiargli un polmone. Compra una barca a vela e, dopo un intervento chirurgico, se ne va in giro per il mondo. Si ferma a Hiva-Oa, nell’arcipelago delle Isole Marchesi che, di fatto, diventa la sua nuova patria. Mort Shuman, suo grande ammiratore, gli dedica un lavoro teatrale il cui titolo sembra una beffa del destino: “Jacques Brel is alive and well and living in Paris” (Jacques Brel è vivo, sta bene e vive a Parigi). Nel 1977, quando sente che la fine s’avvicina, registra il suo ultimo disco (due milioni di copie vendute solo con le prenotazioni) e destina il 90% dei proventi al Centro Medico per la Ricerca sul cancro. Pochi mesi dopo muore e viene seppellito sulla sua isola.
Di lui resta una lunga sequenza di canzoni dalle quali traspare una volontà di rivolta radicale contro un sistema e, soprattutto, una società che non gli piace. Fa i conti a modo suo anche con le associazioni cattoliche nelle quali ha militato in gioventù («nazisti durante le guerre/e cattolici in mezzo/non fate che correre/dal fucile al messale») e con la fabbrica cui sembrava destinato per eredità paterna («i sentieri che portano all’officina/li vorrei bruciare»). Bersagli sono i borghesi (“Les bourgeois”), i militari (“La colombe”), i perbenisti (“Ces gens la” e “L’age idiot”), i preti e lo stesso Dio, passando per una feroce presa in giro anche di se stesso come cantante. Cantore della realtà che lo circonda e capace di una critica spietata dell’esistente, non rinuncerà alla poesia neppure di fronte alla propria morte, commentata con gli abitanti della “sua” isola che parlano «della morte/come si parla d’un frutto».