George Bush, «il bolivariano», «l’amico dei trabajadores y campesinos» dell’America latina (parole sue), arriva oggi a San Paolo del Brasile, prima tappa di una tournée latino-americana che in 8 giorni porterà lui e la sua numerosa troupe in Uruguay, in Colombia, Guatemala e Messico.
Un viaggio che dovrebbe provare l’interesse sempre vivo e «prioritario» del grande fratello del nord per i suoi sfortunati fratellini del sud. Loro, spesso obnubilati da un cieco e insensato «anti-americanismo», non se ne ricordano. Ma il 25 agosto 2000 l’allora candidato George Bush, impegnato nella corsa alle elezioni di novembre che l’avrebbero portato – probabilmente con la frode – alla Casa bianca, l’aveva messo in chiaro: l’America latina sarebbe stata «un impegno fondamentale» della sua presidenza. Aveva in mente l’Alca, l’Accordo di libero commercio delle Americhe – tutti i 34 paesi Cuba esclusa – che doveva cominciare a funzionare dal primo gennaio 2005, nel frattempo morto e sepolto.
Poi i casi della vita e la malvagità degli uomini, l’hanno distratto da quel suo «fundamental committment». Ma adesso, anche per cercare di divincolarsi dai pantani afghani e iracheni, ha riscoperto l’America latina. L’aveva detto a chiare lettere lunedì, anche in spagnolo, alla Camara Hispanica de Comercio di Washington: «Il mio messaggio a quei trabajadores y campesinos» dell’America latina «è che voi avete un amico negli United States of America». E, a riprova di questa fratellanza, aveva tracciato un parallelo fra Simon Bolivar, el Libertador dell’America latina (di cui con ogni probabilità non aveva mai sentito parlare), e George Washigton, l’eroe dell’indipendenza degli Stati uniti: «Bolivar, come Washington, appartiene a tutti coloro che amano la libertà. Noi americani possiamo chiamarci suoi figli».
L’assunzione di Bolivar – l’uomo che attribuì agli Stati uniti il triste privilegio di essere destinati a ricoprire di sventure l’America latina – non gli è stato suggerito a caso dai suoi speech-writers. Bolivar è anche l’eroe di Hugo Chavez, il venezuelano che ha osato sfidare Bush sul suo terreno – il petrolio e il neo-liberismo – e che sarà anche lui impegnato negli stessi giorni in un «contro-viaggio» in America latina (l’Argentina di Kirchner e la Bolivia di Morales).
Chavez è il vero obiettivo della tournée latino-americana di Bush. Sarà il convitato di pietra degli incontri con Lula a San Paolo, Vazquez a Montevideo e perfino Uribe – uno che in altri tempi si sarebbe definito un suo lacché – a Bogotà. Con tutti loro, compresi i servizievoli Oscar Berger in Guatemala e Felipe Calderon in Messico, il tentativo di Bush sarà di stoppare il peso di Chavez, prima solo economico – la «petro-diplomazia» – e ora anche politico – il «socialismo del XXI secolo» – cementato dal collante dell’integrazione latino-americana.
La riscoperta dell’America latina per Bush arriva troppo tardi e priva di una vera strategia. Che non sia quella di sempre – anche se per l’occasione ha riesumato la lotta «alla povertà e alle diseguaglianze» -: democrazia e libero commercio (a senso unico). A dirglielo non saranno solo le manifestazioni popolari di ripudio che si preparano a dargli «il malvenuto» a San Paolo oggi, a Montevideo domani e nelle altre città in cui metterà piede in questi 8 giorni. Lui, chiuso nella sua limousine blindata e nel suo elicottero portati dagli Usa (insieme agli hamburger e all’acqua minerale) non sentirà le grida di «Fora Bush» e non vedrà i «Bush asesino» scritti sui muri perché le città saranno tutte sotto coprifuoco come fossero in guerra e i manifestanti – molti dei quali saranno i militanti degli stessi partiti, il Pt in Brasile, il Frente Amplio in Uruguay…, dei presidenti che incontrerà nei palazzi – saranno tenuti a debita distanza dalle migliaia di poliziotti locali e dagli almeno 300 agenti di sicurezza arrivati dagli Usa. Ma il messaggio gli arriverà lo stesso. Anche perché, con parole diverse, sono gli stessi americani a mandarglielo. Come il New York times, che in un editoriale di ieri ironicamente titolato «Thanks to Mr. Chavez» ricorda che per contrare con qualche speranza di successo «la demagogia» del presidente venezuelano, Bush dovrebbe presentarsi con «una nuova versione» di quell’Alleanza per il progresso usata da Kennedy e Johnson negli anni 60 per combattere «la popolarità di Fidel Castro». E dovrebbe parlare a muso duro di diritti umani con gente come Uribe e Berger. Invece di presentarsi con un pacchetto di proposte che non sono altro che «la rimasticatura dei programmi esistenti» e con «il doppio standard di Washington sui diritti umani» che «mina la sua credibilità quando accusa le intimidazioni e la persecuzione di Mr. Chavez contro i suoi critici».
Bush tenterà Lula con la «diplomazia dell’etanolo» che in 20 anni vorrebbe fare dell’Amazzonia «l’Arabia saudita dei bio-combustibili», per affrancare Stati uniti e America latina dal petrolio e dalla «petro-diplomazia» chavista. Ma è un trucco con sopra una mano di verde (si legga qui sotto l’articolo di Stedile) cui è difficile credere che Lula cadrà, nonostante il rapporto privilegiato con Bush. Troppo tardi e troppo poco. Grazie a Mr. Chavez e non solo.