Nel ’99 un +0,3% che in realtà significa recessione, nel 2000 +4%, nel 2001 previsto un +3,7%. Sembra un paradosso (ma non lo è) che tutti i paesi dal Rio Grande alla Terra del Fuoco alla fine dell’anno presenteranno – salvo spiacevoli sorprese – indici di crescita positivi (unica eccezione l’Uruguay dove si attende un -1%), ma nel contempo, a giudizio pressoché unanime, le condizioni generali dell’America Latina sono peggiorate e continueranno a peggiorare. Più disoccupazione, più povertà, più concentrazione della ricchezza. In sostanza più instabilità sociale e quindi più rischi politici per sistemi di democrazia formale tutt’altro che stabilizzati.
Dei quasi 500 milioni di abitanti dell’America Latina, ce ne sono 50 di privilegiati, almeno 220 in condizione di povertà o miseria. In Centroamerica il 70% della popolazione è povero.
Nel decennio 1980-1990, la década perdida, il Pil dell’America Latina registrò un misero +1,6%; nel decennio 1990-2000, quello del neo-liberalismo, andò un po’ meglio (+2,7% dal 1995 al 2000), ma non tanto da permettere di combattere la disoccupazione e la povertà. E non ci riuscirà il 3-4% previsto da qui al 2010. Ci vorrebbe almeno il 6%; altrimenti la miseria si aggraverà. Con effetti sconosciuti ma prevedibili.
Il Nafta per il Messico; il Mercosur (il Mercato economico del Sud fra Brasile-Argentina-Uruguay-Paraguay, più gli associati Cile e Bolivia), che quest’anno compirà i primi dieci anni di vita fra spasmi di dissoluzione; l’Alca (l’Accordo di libero scambio delle Americhe) con cui gli Usa cercano di completare la loro storica egemonia sull’America Latina a partire dal 2005 (o già dal 2003); la dollarizzazione che avanza (Panama, El Salvador, Ecuador, Guatemala, Argentina) non sono serviti. O meglio: sono serviti – e come – al `Nord’ e alle oligarchie vecchie e nuove latino-americane. Ragion per cui il presente e il prevedibile futuro dell’America Latina sono impegnati in una corsa sempre più affannosa contro il tempo e marcati da una forte `turbolenza’ politica e sociale che va dal Chiapas messicano alla Patagonia argentina e non risparmia nessun paese. Diamo un’occhiata schematica.
Brasile
Il gigante dell’America Latina, ottava economia mondiale, secondo ricettore mondiale di investimenti esteri diretti fra i mercati emergenti (60 miliardi di dollari nel biennio 1999-2000) e quarto o quinto in assoluto. Salvato dal collasso del real svalutato del 40% a inizio ’95 da una cordata di soccorso Fmi-Usa da 40 miliardi di dollari, ha mostrato un grande dinamismo economico riprendendosi rapidamente dopo due anni di recessione (+0,2% nel ’98, +0,9% nel ’99, +4% nel 2000, +4,5% previsto per il 2001) e riuscendo a contenere con successo l’inflazione (6% nel 2000, obiettivo 4% nel 2001). Nel contempo il Brasile dimostra ancora tutta la sua vulnerabilità. Le ottimistiche previsioni in economia sono andate a sbattere contro l’effetto tango, ossia la drammatica crisi dell’economia argentina (destinataria del 12% dell’export brasiliano). Sul piano sociale un’indagine recente rivela che la concentrazione della ricchezza, già a livello scandaloso, è ancora aumentata: al 10% più ricco va la metà della ricchezza nazionale e un reddito annuo 28 volte superiore a quello del 40% più povero, e il salario minimo – portato a 85 dollari al mese – dovrebbe triplicare per coprire i bisogni essenziali. Sul piano politico Cardoso si trova sempre più invischiato in faccende di corruzione. il Partido dos Trabalhadores (Pt) di Lula, la Chiesa cattolica e i Sem Terra chiedono l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta. Le elezioni amministrative dell’ottobre scorso hanno registrato una grande avanzata del Pt e i sondaggi attribuiscono a Lula da Silva il 30% delle intenzioni di voto per le prossime presidenziali. Che però saranno nel 2002.
Argentina
I sogni di grandeur del decennio del peronista-liberista Carlos Menem alla Casa Rosada (1989-1999) sono presto naufragati. E così gli impegni della Alianza fra la vecchia e destrorsa Unión Civica Radical (Ucr) e il Frente por un País Solidario (Frepaso, grosso modo socialdemocratico), vittoriosa nelle elezioni dell’ottobre ’99 sulla base se non proprio di una svolta nella politica economica – la parità dollaro-peso inventata nel ’91 dall’allora ministro peronista Domingo Cavallo era confermata `intoccabile’ – almeno di un suo riorientamento in senso socialdemocratico e moralizzatore. Il presidente Fernando de la Rúa (Ucr) in realtà si è mosso all’insegna del continuismo su entrambi i fronti. La Alianza si è rotta presto. La recessione del ’99 (-3,4%) è continuata nel 2000 (-0,5%) e c’è voluta una ciambella da 40 miliardi di dollari del Fmi, in dicembre (ma alle solite condizioni socialmente brutali), per evitare la bancarotta. De la Rúa ha sterzato sempre più a destra e si è affidato a Cavallo (ancora lui) che promette tagli, austerità e privatizzazioni ma anche la ripresa della `crescita’. I sindacati hanno dichiarato guerra al governo a suon di scioperi generali e, a livello sociale, il paese è sull’orlo dell’esplosione. Di qui alle presidenziali del 2003 può succedere di tutto.
Cile
In Cile non c’è solo la saga Pinochet. Dopo gli anni del `miracolo’ economico propiziato dall’accoppiata militari-Chicago boys, al ritmo di crescita del 7% l’anno fra l’87 e il ’97, la recessione secca del ’99 (-1,1%) e il boom della disoccupazione (6,4% nel ’98, 10,7% nel `99) sono stati uno choc. Ricardo Lagos, il primo socialista (per quanto molto light) a ritornare alla Moneda dopo Allende, vinte le elezioni del gennaio 2000, aveva promesso la disoccupazione al 7% e la crescita al 6% entro l’anno. Nel 2000 l’economia è cresciuta del 5.4% ma la disoccupazione era ancora all’8,7%. «La nostra è l’economia più aperta che ci sia – ha detto Lagos. – Le esportazioni più le importazioni costituiscono il 50% del Pil». E per questo l’export si trova in difficoltà di fronte alla crisi asiatica, alla recessione americana e al rallentamento europeo. Lagos punta tutte le sue carte più che sull’adesione piena al Mercosur (annunciata e poi rinviata sine die in dicembre) sull’entrata nel Nafta (al quale il Cile era stato `invitato’ ai tempi delle vacche grasse) e sulla rapida conclusione dei negoziati per l’Alca (scontrandosi con le resistenze del Brasile).
Colombia
Il paese più a rischio dell’America Latina. Il Plan Colombia ha travolto ogni residua distinzione fra lotta anti-narcos e lotta anti-guerriglia. Washington ha definito la Colombia un problema «per la sicurezza nazionale» (degli Stati uniti). C’è il rischio di un nuovo Vietnam. Il presidente conservatore Andrés Pastrana, eletto nel ’98, punta su una strategia a doppio binario: Plan Colombia con gli americani, negoziati di pace con la guerriglia (Farc ed Eln), che controlla il 40% del paese e fruisce di due zone `demilitarizzate’. I 1300 milioni di dollari degli Usa (l’80% in aiuti militari) sono parte di un piano più ampio di Pastrana, per un totale di 7,5 miliardi di dollari, ma che non convince neanche l’Unione europea, che finora non ha contribuito con il miliardo di dollari chiesto da Pastrana. Il tutto in una situazione sociale terrificante (35.000 vittime di morte violenta l’anno, 2 milioni di profughi interni), e con la peggiore recessione economica che il paese ricordi (-4,3% nel ’99). Nel 2000 il Pil è tornato in positivo (+3%). Ma la disoccupazione urbana ruota sempre intorno al 20% – la più alta dell’America Latina –, e l’accordo con il Fmi del dicembre ’99 non lascia margini di manovra. Un paese sull’orlo sull’abisso.
Venezuela Il Venezuela del presidente Hugo Chávez è il solo paese in controtendenza rispetto al trend politico-economico. Chávez ha passato i primi due anni dei sei del suo mandato a rovesciare il paese dalle fondamenta, per estirpare la corruzione, stroncare la povertà e gettare le basi del nuovo «Venezuela bolivariano», nazionalista e populista. Costituzione, Congresso, Corte suprema, sindacati: via tutti e tutto nuovo a colpi di elezioni e referendum, e sovente con metodi spicci. La tremenda recessione del ’98 e ’99 (-0,2% e -6,1%) ha lasciato il posto a una crescita nel 2000 pari al +3,5%, la stessa prevista per il 2001; l’inflazione, nel ’99 al 20%, nel 2000 è scesa al 13,4 ed è prevista al 10-12 nel 2001. Il tutto pompato dal petrolio – di cui il Venezuela è il terzo esportatore mondiale – che genera il 60% degli introiti fiscali e che, attraverso la compagnia petrolifera statale Pdv-Sa, dal 1999 al 2000 ha triplicato i suoi profitti (da 2,4 a 7,3 miliardi di dollari). Tuttavia il recupero economico resta incerto, il panorama politico-sociale interno agitato (l’establishment spodestato grida al golpe bianco, gli indici di criminalità sono aumentati, gli scioperi sono stroncati) e le prospettive regionali e internazionali preoccupanti. Chávez si proclama seguace di Castro, è alle strette con la Colombia e con gli Stati uniti. È contro il Plan Colombia («ingerenza» USA, un piano «non di pace ma di guerra»), è a fianco del Brasile nella resistenza all’Alca e si candida per entrare nel Mercosur. Washington è sempre più diffidente rispetto a quella che un famoso giornalista come Tad Szulc definisce «la connessione anti-americana e anti-capitalista Castro-Saddam Hussein-Chávez».
Perù
È uscito a pezzi dal decennio fujimorista (1990-2000), dopo che el Chino Fujimori era stato per anni il cocco degli Usa e del Fmi. La fuga ingloriosa nel Giappone dei suoi padri (novembre 2000), dopo le elezioni truccate con cui voleva arraffare un terzo mandato, non ha risolto i problemi politici, economici e sociali (il 50% della popolazione è sotto la soglia della povertà) che si è lasciato alle spalle. Il voto dell’8 aprile ha lasciato a contendersi la presidenza, nel ballottaggio del 20 maggio prossimo, l’indio-neoliberale Alejandro Toledo (poco gradito all’establishment criollo perché cholo) e l’ex presidente Alan García, del vecchio partito Apra, riemerso dalle ceneri della sua disastrosa presidenza dell’85-90 (inviso all’establishment per il suo passato nazionalista-populista). L’economia, in recessione nel ’98 (-0,4%), è cresciuta dell’1,4% nel ’99, del 3,8% nel 2000 e si prevede un +2,5% per l’anno in corso. Ma il caos politico e l’incertezza sul futuro hanno fatto precipitare gli investimenti esteri dai 2 miliardi di dollari del ’99 al miliardo del 2000.
Ecuador
«L’Ecuador è divenuto l’esempio più compiuto della decomposizione economica e politica sul continente americano», ha scritto «Le Monde» del 5 febbraio scorso. Esempio «tanto più emblematico in quanto l’Ecuador non è affatto un paese povero» (2 miliardi di dollari dall’export petrolifero nel 2000). Un anno dopo la grande mobilitazione indigena (gli indigeni sono la metà della popolazione), popolare e dei bassi gradi delle forze armate che costrinse alle dimissioni il presidente Jamil Mahuad e portò all’insediamento del suo vice, Gustavo Noboa, il 2000 non ha visto l’uscita dalla terribile recessione del ’99 (-7,3%) nonostante il +2,3% previsto per il 2001. I rimedi utilizzati, a cominciare dalla dollarizzazione, non sono serviti a niente. L’inflazione, ancora al 90%, ha ulteriormente eroso il potere d’acquisto già vittima della raffica di aumenti decisi da Noboa e imposti dal Fmi per concedere, nell’aprile 2000, un credito di 2 miliardi dollari nei prossimi tre anni. Secondo la Banca mondiale più di 5 milioni di ecuadoriani su 12 vivono nella povertà assoluta. La conflittualità è altissima.
Bolivia
Ai primi del 2001 Hugo Bánzer, l’ex dittatore del ’71-’78, eletto presidente nel ’97, ha proclamato che la guerra al narcotraffico «è stata vinta» e che la Bolivia si è liberata dalla stigmate di principale produttore di coca al mondo (insieme al Perú). A fianco dell’ambasciatore Usa, Bánzer ha detto che il programma di estirpazione-fumigazione delle colture si è chiusa con la distruzione, dal 1998, di 40.000 ettari. Ma la fumigazione delle piantagioni di coca, incentivata con un premio di 2500 dollari per ettaro ai campesinos, ha avuto, secondo Evo Morales, leader dei cocaleros, «effetti devastanti» sull’ambiente e sulle comunità indigene provocando la distruzione anche delle altre colture di sussistenza e del bestiame. Senza che l’economia dia segni di crescita minimamente significativi (+0,6% nel ’99, +2% nel 2000). Ragion per cui tutto il 2000 e anche l’inizio del 2001 sono stati segnati da generalizzate e violente proteste e scioperi contro la politica del governo (e la corruzione). Le organizzazioni popolari, specie quelle degli indigeni, stanno riacquistando o acquisendo forza e chiedono una nuova Assemblea costituente per risolvere la crisi economica, sociale e politica del paese andino. Ma Bánzer, il cui mandato scade nel 2002, ha detto che non si dimetterà.
Paraguay
Il Paraguay, oltre a malanni economici analoghi a quelli di molti altri paesi latino-americani, ha anche seri problemi di stabilità politica. Nel ’99, assassinato il vice presidente Argañas, cacciato il presidente Cubas, fuggito il generale golpista Oviedo, nominato il nuovo presidente Luís González Macchi (tutti del Partido Colorado, fondato dal dittatore Stroessner). Nel 2000 arrestato Oviedo (in Brasile), registrati tentativi ricorrenti di golpe, le cose non hanno fatto che peggiorare. Crescita ferma o insignificante (dopo il -0,4% del ’98, il +0,5% nel ’99 e il +1.5% nel 2000), disoccupazione in aumento (4,4% nel ’94, 9,4% nel ’99, 16% nel 2000). Contrabbando (persino la Bmw del presidente è risultata rubata in Brasile, come 400.000 delle 600.000 auto circolanti in Paraguay), corruzione e scandali a ripetizione (González Macchi rischia l’impeachment prima della scadenza del suo mandato nel 2003), impunità. Neanche il Fmi è riuscito a rimettere ordine, sia pure a modo suo, e una missione del Fondo, agli inizi del 2001, è ripartita da Asunción lasciandosi dietro solo delle `raccomandazioni’. Sindacalisti, imprenditori, l’opposizione liberale e di sinistra, le associazioni dei consumatori, la Chiesa cattolica, le organizzazioni indigene sono contro González Macchi, il cui indice di popolarità è precipitato al 10%. Ci sono volute le costanti pressioni dei potenti partner del Mercosur, Brasile e Argentina, per mantenere il Paraguay sulla via dell’apparenza democratica.