L’America Latina nel cuore di Genova, città multietnica

Vista dalla Spianata di Castelletto la città storica sembra una labirintica e immensa medina di ardesia, protesa verso il mare. Affascinante microcosmo multietnico, senza confronti e sempre sul punto di esplodere. Eppure nel 1991 accadde qualcosa che forse oggi non tutti ricordano: la rabbia degli immigrati era esplosa tra i vicoli in un clima di guerriglia urbana durata tre giorni, (con rastrellamenti e violenze agli immigrati anche da parte di normali cittadini), di cui lo scrivente fu testimone e successivamente rievocata, come un docudrama poetico, in un lungo racconto dal titolo “Il tempo di Rachid, storie di immigrati”.
Un’anticipazione dei giorni arroventati del G8? Forse, ma in quell’episodio, mai più ripetutosi se non, ad esempio, all’interno dei Cpt di Lampedusa, di Torino o di via Corelli a Milano, dove l’accoglienza diventa subito detenzione, era comunque assente la dimensione ludica e creativa di cui si era fatto portatore il “popolo di Seattle”. Esso fu piuttosto il segno di una drammatica evidenza, ossia del potenziale razzista presente nel nostro paese e altresì in una metropoli mediterranea con forte vocazione mercantile e cosmopolita. Alla contraddizione in atto seguì l’amarezza della delusione per chi quella città aveva e ha ancora oggi nel cuore.

A quel tempo non si poteva ancora parlare dell’esistenza di una comunità ecuadoriana a Genova o nel resto dell’Italia eppure ieri come oggi sui muri della città storica ritroviamo la stessa scritti, “derattizzazione in corso non toccare le esche”, che ha accompagnato e di certo accompagnerà la storia dell’evoluzione umana, sociale e architettonica di questo angolo di mondo dove si misurano i destini di migliaia di immigrati di tre continenti.

Oggi nell’angiporto, terreno naturale per immigrazioni vecchie e nuove, malaffare, spaccio e prostituzione, e il suo “teatrino” spontaneo rappresentato da via Prè, che alla cattiva fama deve aggiungere una bellezza medievale, autenticamente popolare, maghrebini, africans, cinesi ed ecuadoriani si dividono faticosamente spazi d’incontro, bar, attività commerciali, scuole e strade.

In meno di un decennio la comunità latinoamericana dell’Ecuador (oltre 24.000 persone), ha ampiamente superato le altre diventando così la più numerosa e significativa, aprendo e sviluppando la cosiddetta terza fase migratoria. Solo il 40% degli ecuadoriani vive nella città storica, il rimanente ha trovato alloggi, spesso di fortuna, nei sobborghi popolari ponentini di Sampierdarena e Cornigliano, “regno infernale” dell’Italsider o in quelli di Marassi, Quezzi e Molassana lungo la val Bisagno, dove attualmente vengono gestite in proprio almeno dieci attività commerciali, che, secondo Henry Raul Soria de Loca, responsabile del settore sportivo del consolato ecuadoriano di Genova, sarebbero garanzia di una comunità sana.

Due le ragioni di questa presenza: la prima deve essere fatta risalire all’esodo di massa cominciato dopo il golpe militare (con il presidente Abdalá Bucaram a capo della giunta) del 1995 e la successiva crisi economica che ha messo in ginocchio un paese già tra i più poveri del continente, spingendolo verso il dramma collettivo dell’emigrazione di massa.

La seconda, invece, riguarda il carattere sociale della comunità, basata perlopiù sulla centralità del nucleo familiare completo, e influenzato da una forte religiosità cattolica che convince l’intera comunità ad appoggiarsi alla chiesa di santa Caterina da Genova e ad un sacerdote fatto venire apposta dall’Ecuador come punto di riferimento religioso e al tempo stesso sociale.

Afferma Soria, che pur non essendoci rapporti stretti con le altre comunità straniere, l’elemento religioso, ad esempio, non ha mai costituito per l’ecuadoriano un fattore discriminante. Il vero problema, come in tutte le grandi città multietniche, sono semmai il controllo e la gestione degli spazi commerciali e più in generale del territorio. Nella sola città storica almeno 25 attività commerciali (Internet point, macellerie, alimentari, frutta e verdura, e le tiendas, sorta di minimarket) sono gestite direttamente da ecuadoriani. A queste si aggiungono perfino delle attività culturali come La Rivista de Los Andes, gestita direttamente dall’omonima associazione, e in un futuro prossimo una “Casa de la cultura equatoriana”.

L’emancipazione di una comunità, sottolinea l’ecuadoriano, passa anche attraverso un uso sociale della cultura. Questo può a buon diritto essere ritenuto un risultato, alla luce del fatto che almeno la metà degli ecuadoriani di Genova è clandestina. Anche per lui quella del clandestino non è che una condizione temporanea, non voluta dall’immigrato, ma che fa di lui agli occhi di quella che un tempo veniva chiamata maggioranza silenziosa, un potenziale criminale. Forze dell’ordine e istituzioni anziché facilitare l’ingresso e l’inserimento dell’immigrato nel nuovo tessuto sociale, a colpi di leggi, burocrazie e periodiche repressioni, spingono sempre più verso l’incertezza, la paura e finanche la tentazione a delinquere.

Dal 1995, più di 2 milioni di ecuadoriani su 12 milioni hanno lasciato il loro paese alla volta dell’Europa stabilendosi prevalentemente in Spagna e in minor numero in Italia. Gli ecuadoriani di Genova, mi spiega Soria, in minima parte provengono dalla capitale Quito, sono in maggioranza originari di Guayaquil e della sua provincia; il fatto che si tratti di una città costiera (da cui si parte per raggiungere le isole Galapagos), faciliterebbe gli immigrati nel difficile processo di inserimento nel nuovo ambiente fisico ed umano. In altre parole, lì essi si troverebbero a proprio agio più che in una metropoli come Roma o Milano.

Ma questo valeva ancor di più, forse, per la prima immigrazione maghrebina: non vi è niente di più vicino ad una città araba del centro storico genovese, da San Giovanni di Prè a piazza Sarzano. Se si attraversano le numerose e impressionanti sequenze dei carrugi, non è difficile imbattersi in altre scritte murali come queste: «Ovunque ci sia ingiustizia, il modo più appropriato di comportarsi educatamente è di attaccare», oppure, «Nessuna repressione ci può colpire perché la rabbia ci rende forti».

Volantini politici anarchici o marxisti, scritti in francese e in spagnolo, che testimoniano il disagio, la rabbia e un grado di consapevolezza politica di tipo insurrezionalista che non può più e non deve essere taciuta. Sui muri delle case di Prè è apparso perfino un timbro nero con la scritta, «io qui non posso entrare»: solo che al posto del cagnolino barrato c’è un carabiniere.

Soria è un giovane neanche trentenne impegnato nel difficile compito di far conoscere ai genovesi uno sport totalmente ecuadoriano, l’ecuavolley, sorta di pallavolo a tre di cui è lui stesso giocatore professionista. Egli è convinto che lo sport possa avere sulla comunità un impatto positivo e assolvere alla funzione di collante tra le giovani generazioni. Ma quando si parla di presunte baby gang ecuadoriane, è un po’ titubante; se esistono, mi dice, questo non dipende dalla natura pacifica e tollerante del nostro popolo, ma piuttosto dalla mancanza di opportunità e di spazi per i giovani.

Del resto il disagio giovanile è sempre esistito, specialmente nella cultura occidentale. Per questo, avverte don Andrea Gallo che incontriamo nella sua casa-comunità di San Benedetto al Porto, nel quartiere di Fassolo, non è davvero opportuno e sensato sopravvalutare il fenomeno delle bande ecuadoriane che personalmente ritiene temporaneo o comunque facilmente contenibile. Inoltre ci ricorda cosa accadde quando la polizia, qualche tempo fa, rastrellò senza una motivazione accettabile, un gruppo di immigrati in possesso di un lavoro, trasferendoli di forza al Cpt di Roma e separandoli dalle loro famiglie.

Ogni martedì la comunità Don Gallo procede alla distribuzione di sacchi-vestiti e più raramente di sacchi-cibo per gli immigrati più bisognosi, molti dei quali sono appunto donne ecuadoriane. Manca tuttavia, secondo il sacerdote no-global, una sorta di coordinamento all’interno della stessa comunità e fra essa e le realtà di solidarietà e alternativa sociale presenti sul territorio.

Se chiedo al giovane ecuadoriano se a parer suo Genova sia o meno una città razzista, lui mi risponde che si tratta pur sempre di un razzismo quasi invisibile, ma quotidiano, metodico, più praticato dagli adulti e dagli anziani che dai giovani. Quel razzismo endemico, ipocrita, in altre parole italiano, che avemmo modo di constatare con amarezza nel neppur tanto lontano 1991 a cui si aggiungono oggi gli individui in doppiopetto della speculazione e degli investimenti, che vorrebbero impadronirsi della città storica (almeno di certe sue parti) per trasformarla in un ampio e in parte vergine territorio di caccia e di profitto.

Non stupisce allora che la scorsa estate, sempre calda a Genova, apparvero sui muri avvisi minacciosi con al centro la sagoma oscura di Nosferatu, che invitavano a delinquere entro i confini del centro storico, che altri invece vorrebbero terra di nessuno, oppure terra dei “senza terra”.