L’America latina inquieta la Rice

Quattro paesi in quattro giorni. Il segretario di Stato Usa in Brasile, Colombia, Cile e Salvador. Molti elogi a Lula e Lagos. Ma la svolta di (centro)sinistra comincia a essere eccessiva e preoccupa. E poi c’è Chavez…

Brasile, Colombia, Cile, El Salvador. Il primo viaggio del segretario di stato Usa Condoleezza Rice a sud del Rio Grande arriva in un momento molto delicato dei rapporti fra gli Stati uniti e l’America latina. La relazione di odio-amore con il Brasile di Lula, la rianimazione dell’Alca, la riforma del Consiglio di sicurezza, l’elezione del segretario generale dell’Organizzazione degli Stati americani, il disastro di Haiti, il giro verso (centro)sinistra di molti paesi latino-americani, l’instabilità di sistemi a democrazia quasi solo formale, i dilemmi sui risultati semi-fallimentari del Plan Colombia, la caduta in serie di presidenti troppo legati agli Stati uniti e al Fondo monetario (qualche mese fa in Bolivia, una settimana fa in Ecuador) il confronto sempre più aspro con il Venezuela di Chavez, il «pericolo» di un soprassalto di autonomia dei paesi del Cono sud, l’offensiva della Cina e dall’Unione europea… Troppa carne al fuoco.

La Rice è arrivata a Brasilia martedì dove ha incontrato il presidente Lula. Prima di lasciare Washington ha rilasciato parole all’acqua di rose su questa nuova «sinistra responsabile» in Brasile – poi ripetute ieri prima di arrivare in Cile – con cui le relazioni dell’amministrazione Bush sono «magnifiche». A Brasilia si è parlato dell’Alca, un tema che peraltro Lula aveva definito un paio di giorni prima «fuori agenda», e della riforma del Consiglio di sicurezza, un punto in cui è il Brasile a dover cercare l’appoggio Usa a sostegno delle sue aspirazioni a un seggio permanente. Dicono invece di non aver parlato del Venezuela. Ma è probabile che Rice abbia insistito con Lula perché, da «amico» di Chavez, svolga un’opera di contenimento e di dissuasione. Non è sfuggita la concomitanza di un viaggio-lampo a Caracas di José Dirceu, il ministro più vicino a Lula.

Mercoledì da Brasilia a Bogotà. Gioco facile perché il presidente Uribe è il più fedele alleato di Bush in America latina (e forse l’unico, ormai, insieme al messicano Fox). Ma anche in Colombia non sono rose e fiori. Il Plan Colombia, lanciato nel 2000 e costato agli Usa più di 3 miliardi di dollari, spira quest’anno e i suoi risultati sono semi-fallimentari. Il narco-traffico e la guerriglia di sinistra non sono stati affatto sconfitti. «Non credo che si debba abbandonare una strategia che sta diminuendo i raccolti di coca e restaurando la sicurezza democratica» ha detto l’impavida Rice. Parole false ma che suonano come promessa di lanciare e finanziare un Plan Colombia II.

Ieri, giovedì, è toccato al Cile. Altro paese a conduzione di centro-sinistra ma molto amico, fra l’altro l’unico, finora, premiato dagli Usa con un accordo di libero scambio. Con il presidente socialista (light) Ricardo Lagos si è parlato di Osa e, ancora, di Chavez. Nel senso che gli Usa per la prima volta nella storia di quel docile strumento non sono riusciti il mese scorso a imporre il loro uomo alla segreteria, prima l’ex presidente salvadoregno Flores poi il ministro degli esteri messicano Derbez, che hanno sbattuto nel socialista cileno José Miguel Insulza, attuale ministro degli interni. Arrivando a Santiago Condi ha detto che anche Insulza è «un candidato stupendo» e questo potrebbe far pensare a un via libera al candidato cileno in cambio di un’azione energica di «contenimento» di Chavez. Si vedrà al voto del 2 maggio.

A Santiago la Rice è andata ufficialmente per partecipare al vertice di una fantasmatica Comunità di democrazie che riunisce 104 ministri degli esteri. Nella capitale cilena il Venezuela chavista era, come nelle tappe brasiliana e colombiana della Rice, il convitato di pietra. L’acquisto di aerei dal Brasile, di elicotteri e soprattutto di 100 mila kalashnikov dalla Russia sembra preoccupare molto Condi, che teme possano finire «in mani sbagliate» – le Farc colombiane o una «milizia popolare» venezuelana. Poi c’è il contenzioso Usa-Venezuela che si aggrava giorno dopo giorno – pochi giorni fa Chavez ha annunciato la fine della cooperazione militare, che durava da 35 anni. Infine i tentativi di esportare «la rivoluzione bolivariana» oltre confine e i rapporti sempre più stretti con Cuba. Non è un caso che proprio ieri Chavez sia arrivato all’Avana, ricevuto da Fidel, per la chiusura del vertice sull’Alba, l’Alternativa bolivariana para las Americas in risposta all’Alca, e l’inaugurazione della sede cubana della Pdvsa, la compagnia petrolifera venezuelana.

Oggi la Rice arriverà a San Salvador. In casa. Al massimo dovrà farsi garantire che il contingente salvadoregno rimanga in Iraq da dove gli altri centramericani si sono tutti ritirati.

Un’ultima tappa di tutto riposo dopo un viaggio complicato. La svolta di (centro)sinistra dell’America latina, per quanto i suoi leader siano «responsabili» e «stupendi», non può non preoccupare Washington. Anche perché cominciano a essere troppi: oltre al Venezuela di Chavez, il Brasile di Lula, l’Argentina, di Kirchner, il Cile di Lagos, l’Uruguay di Vazquez, la stessa Bolivia di Mesa, il Panama di Martin Torrijos, forse ora l’Ecuador di Palacio (che, guarda caso, gli Usa e l’Osa non hanno ancora risconosciuto)… Con il Nicaragua di Bolaños e il Perù di Toledo che scricchiolano.