L’altra faccia dell’egualianza: precarietà per tutti

Una prova dell’attitudine apparentemente modernista nel progettare la riforma del diritto del lavoro è contenuta in tre proposte di flessibilizzazione parziale delle tutele del rapporto di lavoro (vedi lavoce.info). Nell’introduzione, Pietro Ichino dichiara di condividere la proposta della Cgil, per la quale è matura l’ora di configurare un solo rapporto di lavoro connotato dalla dipendenza socioeconomica e di riunificare subordinazione e parasubordinazione.
Solo che, per la proposta Cgil, questa unificazione deve comportare l’estensione delle tutele oggi previste per il solo lavoro subordinato a tutti coloro che operino effettivamente per altri in stato di dipendenza socioeconomica. Per Ichino, viceversa, l’unificazione deve essere accompagnata da un abbassamento delle tutele oggi riservate ai rapporti di lavoro subordinato e in questo senso si dichiara favorevole alle tre proposte presentate, le quali costituiscono una delle variazioni sulla vecchia equazione: meno garanzie uguale maggior occupazione.
Insomma, si torna al punto di tanti anni fa, quando i contratti di «flessibilità» erano sconosciuti, perché il contratto a tempo indeterminato era liberamente risolubile. Altra è la strada delle modernizzazione delle discipline. Si tratta, come nelle proposte Cgil, di mantenere la stabilità del rapporto e di perfezionare il regime del motivo giustificativo di licenziamento, sempre necessario per assicurare la dignità del lavoratore.
Scendendo ad un esame delle tre proposte, si segnala un necessario dissenso con quella (Andrea Ichino) che intende sostituire a tutti i contratti atipici un contratto temporaneo limitato (Ctl), il quale dovrebbe avere durata minima di almeno tre anni, non ripetibile presso la stessa azienda e ripetibile per non più di tre volte durante l’intera vita del lavoratore. Ci chiediamo quale destino attenderebbe il lavoratore che avesse già «consumato» tre contratti di questo tipo in un mercato in cui le imprese preferiscono questo contratto rispetto a quello a tempo indeterminato. Il fatto è che i contratti atipici non sono solo un modo di sottoporre il lavoratore a delle «lunghe prove», ma ormai una vera e propria tecnica di sfruttamento del lavoro. Il contratto a termine non viene utilizzato normalmente per le professionalità alte, bensì di preferenza per le mansioni operaie e d’ordine. Questa proposta, pertanto, servirebbe su un piatto d’argento alle imprese, la possibilità di cambiare ogni tre anni commesse, segretarie, addetti ai servizi vari etc..
Per la seconda proposta (Boeri e Garibaldi) il contratto a termine resterebbe senza causale, limitato a due anni e penalizzato da un incremento contributivo. La rimodulazione contributiva è senz’altro accettabile, tuttavia entro un quadro di recupero della disciplina limitativa del lavoro a termine e di vera attuazione della Direttiva Comunitaria. La proposta, poi, vorrebbe configurare un «sentiero a tappe», che appare artificioso, verso il rapporto a tempo indeterminato. Dopo un lungo periodo di prova (da 6 a 12 mesi), il lavoratore entrerebbe in un purgatorio della durata di 2 anni, detto «periodo di inserimento», durante il quale fruirebbe dell’articolo 18 solo in caso di licenziamento disciplinare; fruirebbe, invece, di tutela obbligatoria (risarcimento da 2 a 6 mensilità) in caso di licenziamento economico. E solo dopo il terzo anno fruirebbe dell’art. 18 anche per questo secondo tipo di licenziamento. Qui non si comprende la tutela solo risarcitoria limitata al licenziamento economico. Infatti, se un licenziamento viene intimato per motivo oggettivo, o esso esiste davvero, e allora nessun risarcimento deve essere dovuto; oppure se il motivo non esiste, si tratterà di un licenziamento arbitrario che deve essere trattato come un licenziamento per motivo soggettivo, anch’esso arbitrario. Basterebbe intimare il licenziamento durante il «periodo di inserimento», come «economico» per sottrarsi alla tutela dell’articolo 18, e rischiare solo la piccola penale risarcitoria.
La terza proposta (Leonardi e Pallini) appare in larga misura vicina alle idee elaborate dalla Cgil, alle indicazioni della Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia. La proposta di unificare i rapporti di lavoro, di reintrodurre la causale nei contratti a termine e di riassorbire tutte le figure atipiche costituisce un obiettivo da condividere. Tuttavia vi è un primo aspetto di dissenso che riguarda la retribuzione deteriore per i «coordinati» rispetto ai subordinati. Il secondo aspetto controverso è la previsione, in caso di licenziamento per motivo oggettivo, effettivamente esistente, di un’indennità economica di licenziamento, salvo, però, il diritto del lavoratore di impugnarlo, chiedendo la reintegra ai sensi dell’art. 18. L’idea è tranquillizzante solo apparentemente, perché il lavoratore per lo più accetterebbe obtorto collo l’indennità, visto che un processo contro il licenziamento dura 2 o 3 anni in primo grado, con tempi aggiuntivi ed imprevedibili in appello, cui va aggiunta la fase di Cassazione. La Commissione ministeriale Salvi-Foglia (2002) ha elaborato un progetto di snellimento del processo del lavoro e della conciliazione/arbitrato. Da qui occorre ripartire per dare garanzia di effettività dei diritti a tutti, a partire dai licenziati (ma anche ai trasferiti ed ai mobbizzati). Altrimenti la proposta Pallini-Leonardi potrebbe avere degli effetti boomerang.
Resta al fondo di ogni proposta «l’esigenza di avere maggiori margini di flessibilità per ridurre i costi nel caso di domanda debole». La diagnosi è condivisibile; non certo la prognosi, che scarica sul lavoratore dipendente il rischio tipico di impresa.