L’altra faccia del surplus cinese

Sul piano economico è in atto un notevole scontro tra Pechino e Washington. A Cancun con il Brasile la Cina ha sostenuto il fronte contro i governi dei paesi sviluppati con un’accezione prevalentemente antiamericana. Per il prossimo futuro dobbiamo attenderci atteggiamenti ancora più duri nella misura in cui gli Usa effettueranno ulteriori pressioni per la rivalutazione dello yuan, soprattutto ora che la bilancia commerciale cinese perde colpi. Infatti, contrariamente a quanto vanno ululando i padroncini delle fabbrichette veneto-friuliane, il grosso del surplus cinese si realizza nelle esportazioni verso gli Usa. Con l’insieme del resto del mondo i conti cinesi sono raramente eccedentari, piuttosto terminano in pareggio. Ora, però, la stagnazione mondiale sta trasformando i conti correnti complessivi della Cina da attivi in passivi, mentre aumenta il surplus con gli Usa, acuendo le tensioni tra i due paesi.

Tuttavia dietro la questione della rivalutazione dello yuan ci sono problemi che riguardano la fondamentale differenza nelle strategie economiche delle due nazioni. Per la Cina vendere significa comprare, perciò il surplus commerciale è prevalentemente nei confronti degli Usa. L’economia civile americana è spanata, soggetta com’è ad un accelerato processo di deindustrializzazione. La quantità di posti di lavoro distrutti dalla recessione del 2000-2002 supera le 2milioni e ottocentomila unità. Il grosso è nell’industria.

Alle multinazionali Usa e alle grandi società di distribuzione non importa assolutamente nulla. Le prime utilizzano le loro filiali in Cina e in America latina (Messico) per riesportare sul mercato Usa con elevati margini di profitto, dovuti ai differenziali nei costi salariali. Le seconde importano sempre dalle stesse zone subappaltando ordinativi alle imprese delle due aree. Per la Cina tale processo è molto importante perchè i proventi delle esportazioni nette verso gli Usa sono utilizzati sia per accumulare riserve che per comperare macchinari e tecnologie da paesi terzi.

Secondo gli ultimi dati del Fondo monetario internazionale la Cina, includendo Hong Kong, è in deficit verso i paesi produttori di beni capitali e di beni intermedi per l’industria: Germania, Giappone, Svezia, Finlandia, Svizzera, Corea meridionale, Singapore, Austria. Inoltre Pechino è importatrice netta di materie prime. Oltre agli Usa le esportazioni nette cinesi si manifestano nel commercio con Taiwan e Canada e in Europa con la Spagna, l’Italia, la Francia ma soprattutto con la Gran Bretagna e l’Olanda.

L’export cinese (con Hong Kong) verso il mondo industrializzato – che, secondo la classificazione del Fmi, comprende gli Usa, il Giappone, l’Europa occidentale nonché Canada, Australia e Nuova Zelanda – era a tutto il 2002 di 291 miliardi di dollari. Di questi il 70% si concentra su tre paesi: Usa, Giappone, Canada. L’Europa figura in maniera molto limitata nell’export cinese, che è comunque polarizzato su Germania (con cui però il paese è in deficit), Gran Bretagna e Olanda.

I poli di gravitazione dell’economia cinese sono sostanzialmente tre: gli Usa, il Giappone e l’Asia orientale. Da questi ultimi due la Cina importa più di quanto esporti, per cui la zona di realizzo effettiva dell’economia cinese sono gli Stati uniti. Questo fatto porta Pechino a cozzare contro la grande strategia Usa di una zona di libero scambio per l’insieme delle Americhe, concepita come un’area simile al sistema di preferenze imperiali del vecchio British Empire.

Su quest’aspetto ritorneremo successivamente perchè la questione cinese da un lato stimola ma dall’altro ostacola la messa in opera del disegno di Washington nei confronti delle Americhe da cui dipende anche la posizione internazionale del dollaro.