L’altra Africa prende la parola: basta con i Live 8

Bamako trampolino di lancio per Nairobi 2007. La tappa africana del Forum sociale 2006 è un’occasione per promuovere l’unità del continente in vista dell’incontro mondiale che si terrà l’anno prossimo nella capitale keniota. In una stanzetta del memoriale Modibo Keita – dal nome del mitico padre dell’indipendenza del Mali – il movimento sociale africano si interroga sul proprio futuro, sulle proprie ambizioni e sui propri limiti. La discussione è accesa; il pubblico, a differenza degli altri seminari che scandiscono la prima giornata di lavori del Fsm di Bamako, è per la stragrande maggioranza di pelle scura. Pochi e discreti, i bianchi osservano il silenzio lo svolgersi del dibattito, che prende spunto dalla volontà di redigere una «carta dell’unità dei popoli e del futuro dell’Africa». Introdotta dal marocchino Taoufik ben Abdallah, la riunione offre un’istantanea abbastanza nitida, anche se non esaustiva, del movimento sociale africano. Intervengono sindacalisti senegalesi, accademici dello Zimbabwe, contadine del Kenya, insegnanti del Mali, militanti del Niger. Tutti uniti dalla volontà di trovare un terreno d’intesa comune, di superare le attuali divisioni e arrivare al Forum di Nairobi con una forza propulsiva che possa rappresentare un elemento di pressione sui governi. «Il Fsm di Bamako deve essere di lezione per il futuro» esordisce Mamadou Goita, del segretariato del Forum, lamentando la scarsa partecipazione nella fase organizzativa degli attivisti di altri paesi. «In Kenya non bisogna ripetere lo stesso errore».

Dall’incontro emerge un panafricanismo non di facciata, che si mette in discussione e si interroga sulla propria ragion d’essere. «Quali sono gli elementi comuni degli africani? Forse il fatto di avere la pelle scura o di vivere sullo stesso continente? L’unità deve essere unità delle idee e deve quindi integrare la diversità», esclama il keniano Onyango Olau. «Il panafricanismo non deve essere solo una parola, ma deve essere sostanziato da fatti, deve essere il fondamento di un nuovo umanesimo», incalza il senegalese Babucar Diop. Imponente nel suo vestito tradizionale, questo insegnante di Dakar è un fiume in piena e avanza una serie di proposte concrete: l’istituzione di un passaporto africano, che permetta la libera circolazione delle persone su tutto il continente; lo studio nelle università delle principali lingue veicolari africane, il kaswahili, l’arabo, il bambara, il wolof, l’haussa. «L’unico modo per superare il divide et impera imposto dai colonizzatori è trovare proprie forme di espressione, che devono necessariamente passare per l’indipendenza linguistica». Il disagio fin là malcelato di una discussione costretta a svolgersi in inglese e francese si scioglie in un caloroso applauso per Diop.

Ma il seminario è anche l’occasione per un bilancio per molti versi a tinte fosche. Il documento che si propone oggi dovrebbe essere una riedizione della «Carta africana per la partecipazione popolare allo sviluppo», redatta ad Arusha (Tanzania) nel 1990, in un mondo che si avviava verso la fine della guerra fredda e verso un rimodellamento complessivo. Da allora, i risultati sono stati assai magri e la partecipazione popolare ai meccanismi decisionali collettivi, punto cardine della Carta, quasi nulla. Tra alti e bassi, la corruzione e il dispotismo hanno imperversato in molti paesi africani. L’Africa non è riuscita ad opporsi agli aggiustamenti strutturali e alle politiche dell’Occidente, che l’ha utilizzata come mercato per i propri prodotti o supermercato di risorse naturali a prezzi da discount, per poi lavarsi la coscienza con rimedi consolatori.

Una realtà che non sfugge a nessuno dei partecipanti e che si impone nel corso degli interventi. «Nel 2005 il mondo si è parlato molto d’Africa; c’è stata la commissione di Tony Blair, i concerti di Bob Geldof, il G8 di Gleneagles. E dove siamo? Al punto di partenza. Dobbiamo essere noi i protagonisti, non lasciare che siano altri a dettare l’agenda delle nostre discussioni», conclude Wahu Karra, una donna keniota che rappresenta il network per la remissione del debito. «Nairobi sarà l’occasione per guardarci allo specchio e mostrare al mondo la nostra forza».