L´alba di un nuovo scontro tra i sunniti e i “ribelli” sciiti

All´alba del giorno della «festa del sacrificio» Saddam Hussein viene impiccato. Se mai qualcuno avesse pensato a un “linciaggio fondatore”, di quelli che mettono la vittima al posto della comunità, nel tentativo di scaricare sulla prima la violenza destinata altrimenti a dividere la società, si è sbagliato.
Nella botola che spalanca l´abisso al despota, che prima di morire rifiuta il cappuccio per mostrare a tutti come muore un uomo che possiede la dignità dello hilm, l´onore virile così importante nella mentalità araba, precipita anche un mondo islamico diviso. Dentro e fuori l´Iraq. Davanti alle crude immagini che precedono e seguono l´esecuzione dell´ex-rais si entusiasmano gli sciiti. Paiono soddisfatti i curdi, anch´essi colpiti dalla feroce repressione del satrapo di Tikrit; anche se, nella caduta della maschera della finzione del diritto, sancita dalla spiccia «giustizia del vincitore», non vedono riconosciuta la responsabilità giudiziaria del massacratore nei loro confronti.
Esplode la rabbia dei sunniti, che vedono, orgogliosamente il loro antico leader andare a testa alta sul patibolo e fare loro appello per il futuro. Si scatenano gli jihadisti, che colgono la macabra occasione per compiere ennesime stragi di sciiti.
A conferma che l´esecuzione di Saddam, simbolo anche prima della sua fine di un passato che non voleva passare ma non era già più il futuro, non poteva essere l´atto su cui far nascere il nuovo Iraq; ma, piuttosto, un moltiplicatore di violenza. Così all´invito rivolto dal premier al Maliki ai baathisti ad abbandonare le armi e partecipare al processo politico, i fedelissimi dell´ex-dittatore rispondono invitando a colpire Stati Uniti e Iran. Sono i membri dell´insolito «partito del patibolo» esterno, composto anche da Israele; un «partito» garante del nuovo assetto di potere, unito nel ritenere la forca per Saddam un «atto di giustizia». Sebbene Teheran sia stata vittima della «guerra d´aggressione» scatenata dall´ex-rais nel 1980, vedere gioire gli ayatollah insieme all´America e Israele, ha evocato, in settori del mondo sunnita, l´incubo del «doppio nemico». Da un lato quella «coalizione iraniana», composta dai partiti religiosi nel governo di Baghdad e dal regime di Teheran, indicata da Saddam nei suoi ultimi istanti di vita, come il «peggiore nemico degli iracheni». Dall´altro Gerusalemme e Washington.
Ostili all´esecuzione, in funzione antiamericana, sono tutti i gruppi della filiera dei Fratelli Musulmani. Quanto a Al Qaeda, che considerava un «governante empio» l´uomo che Bush accusava di essere suo complice nell´attacco alle Twin Towers, sfrutterà la fine di Saddam per mostrare, propagandisticamente, al mondo sunnita la volontà di aggressione «crociata e sionista» nei suoi confronti.
Ma la grande tormentata, in questa vicenda, è l´Arabia Saudita, il paese che temendo di essere il vero bersaglio dell´ex-rais, chiese l´intervento Usa nella guerra che segnò l´inizio della sua fine. Nel condannare l´impiccagione Riad si rifugia, formalmente, dietro a motivazioni religiose. Accusan il governo sciita di Baghdad di «scarso rispetto» per le cose sacre poiché è avvenuta durante l´hajj, il pellegrinaggio a la Mecca e in coincidenza con l´Eid al-Adha, la festa del sacrificio. Ma i sauditi sperano di sfruttare il malcontento sunnita per la fine di Saddam per creare consensi alla loro politica, ormai orientata a una decisa opposizione all´Iran e quello che ritiene il suo governo-satellite di Baghdad.
Per isolare gli «eretici sciiti» Riad ha bisogno della luce verde degli americani, ufficialmente protettori della nuova «democrazia irachena». Se gli Usa non rispolvereranno l´ipotesi di dividere l´Iraq in tre zone, con un nord curdo di fatto indipendente e magari garantito dalla Nato, il sud sciita gravitante sull´Iran, e il centro sunnita, ridisegnato per consentirgli l´accesso alle risorse petrolifere, ancorato alla Giordania, i sauditi potrebbero imboccare una via non meno difficile. Il piano di tripartizione presuppone non solo un complesso spostamento di popolazioni nelle aree miste come Baghdad o di Mosul e Kirkuk, già teatro di forme più o meno blande di «pulizia etnica», di difficile attuazione; ma anche l´assegnazione di parte della Transgiordania ai palestinesi. Grazie anche ai legami clanici e tribali della sua popolazione con quella oltrefrontiera, il regno hascemita ingloberebbe la parte ovest dell´Iraq. L´alternativa è la possibilità, più realistica, che i sauditi usino denaro, armi e petrolio, più di quanto facciano adesso, per rafforzare i sunniti ed evitare che l´Iraq finisca nell´incontrollabile orbita iraniana. Scelte, quelle saudite, che potrebbe scatenare grande instabilità ma che Riad ritiene meno catastrofiche del dominio iraniano in Medioriente. Fantapolitica? Probabile. Comunque non attuabili senza un diffuso senso di emergenza antisciita, che i sauditi intendono tenere vivo anche grazie al malessere suscitato dall´esecuzione di Saddam. Negli oscuri meandri di quella botola ormai vuota si agitano fantasmi che l´esibizione dell´inerte «corpo del sovrano» non serve certo a esorcizzare.