L’Afghanistan che ci aspetta

«La famiglia è stata avvertita», il bollettino di guerra ieri si è allungato di un altro nome, quello di Daniele Paladini, il maresciallo capo ucciso in un attentato suicida in Afghanistan, dove sono rimasti feriti, per fortuna in modo lieve, altri tre ufficiali della missione militare italiana – «ma non di guerra» dice il governo.
Non bisognava avere particolari doti di vaticinio per capire che in questi giorni proprio gli italiani sarebbero stati oggetto di attacchi. Ma il governo italiano per bocca del sottosegretario Verzaschi ragionava e rabboniva che «non bisogna meravigliarsi della comparsa di tecniche relative ad attacchi suicidi». Mentre ieri Prodi si è mostrato invece allarmato della comparsa dei kamikaze, come in Iraq, e dell’escalation in atto. Purtroppo, lasciano presagire il peggio sia il commento del presidente del consiglio che parla di «sacrificio eroico» e che dichiara «la missione non è in discussione», sia le parole del presidente della repubblica «con orgoglio», sia la litania di rivendicazioni politiche che giustificano la morte del militare italiano e rilanciano la presenza del nostro contingente. Tutti appesi alla spiegazione che viene fornita sull’attacco subito a 16 km da Kabul. I soldati italiani si sarebbero frapposti tra l’attentatore e la folla convenuta per i lavori di un ponte riattivato, limitando così il numero dei morti civili, ben nove con quattro bambini.
Una conferma della ferocia talebana anche contro gli stessi afghani. Non dissimile però da quella della coalizione militare occidentale. Impossibile infatti non ricordare come in questo mese e in ottobre ci sia stato il triste record di civili uccisi dai bombardamenti aerei della Nato dove partecipiamo con ufficiali proprio all’indicazione dei bersagli, coadiuvati ora anche dai Predator e dagli elicotteri Mangusta. Questi sanguinosi raid contro i civili, utili a seminare terrore per impedire il legame nel territorio con la nuova presenza dei taleban, hanno fatto insorgere lo stesso presidente Karzai e il governo italiano. Il risultato di quei massacri è stato quello di rendere sempre più nemiche le truppe occidentali.
Tanto che ormai in Afghanistan la situazione è precipitata. I talebani, secondo il prestigioso think tank Senlis Council, controllano almeno il 54% del territorio e quest’anno, secondo i dati dei comandi occidentali, gli attacchi con armi pesanti dei talebani sono cresciuti del 30%. Un fallimento, dopo sei anni di sanguinosa «pacificazione».
Tra le giustificazioni della presenza italiana c’era il fatto che i ribelli erano ben lontani dalla nostra zona. Ora è lo stesso governo italiano a informarci che i taleban «operano nell’area sotto nostro controllo», come dimostrano i ripetuti attacchi delle ultime settimane. Anche lì le operazioni di mantenimento della pace si sono trasformate in operazioni di guerra e il lavoro di ricostruzione è impossibile a causa delle misure di autodifesa delle truppe. E la «missione militare in zona di guerra» è diventata partecipazione ai combattimenti.
Che ci stiamo a fare senza alcuna strategia che non sia quella di sostenere la coda della guerra di vendetta americana per l’11 settembre? Che ci stiamo a fare, visto che la conferenza di pace è rimasta lettera morta? Pochi giorni fa c’è stata la commemorazione della strage di Nassiriya in Iraq. Non abbiamo bisogno di nuovi eroi o di aspettare una Nassiriya afghana.