L’acceleratore del welfare

Non esiste nessuna prova empirica. Non ci sono riscontri concreti, calcoli matematici, che possano dimostrare uno dei luoghi comuni più diffusi a proposito di welfare. Negli ultimi anni, dopo le campagne politiche e culturali del liberismo, si è cominciato a pensare allo Stato sociale come a un peso, un freno che rischia di bloccare la crescita economica. Il welfare, insomma, come un fardello che bloccherebbe lo sviluppo e quindi limiterebbe la crescita della ricchezza. Il professor Felice Roberto Pizzuti, docente di politica economica della Facoltà di Economia dell’Università La Sapienza di Roma e curatore del Rapporto sullo stato sociale 2006 (Utet, 388 euro, 24 euro), ha spiegato ieri che la tesi del «trade-off», ovvero dell’opposizione tra welfare e crescita, non regge. Si tratta di una tesi che è stata giustificata con l’ipotetico disincentivo dell’offerta di lavoro e dello stimolo al risparmio che i sistemi di welfare produrrebbero come effetti secondari. L’altro argomento utilizzato dai liberisti – ha spiegato ieri Pizzuti durante la presentazione del Rapporto – è quello dell’aumento del costo del lavoro che ridurrebbe la competitività delle imprese. «In realtà – scrive Pizzuti – nonostante la diffusione e il credito (per lo più ingiustificato) di cui gode la tesi del trade-off e le significative conseguenze che concretamente ne vengono fatte discendere in termini di politiche sociali e di complessiva politica economica, le indagini empiriche non confermano affatto le sue indicazioni». Non solo si smonta così il luogo comune che sembrava indiscutibile, ma si propone perfino un suo parziale (prudente) rovesciamento. Ci sono infatti prove empiriche che mostrano come il welfare si lega strettamente allo sviluppo creando spesso un vero e proprio circolo virtuoso. Cresce la domanda di Stato sociale con la crescita delle economie e le economie beneficiano a loro volta della crescita della domanda di welfare. Ci sono però, nelle esperienze concrete studiate, molte differenze. Nei sistemi economici strutturalmente «maturi» (non aperti all’innovazione e tendenzialmente proiettati al declino), i sistemi di welfare possono risultare meno efficaci come stimolo alla crescita e il loro finanziamento può risultare negativo se le imprese decidono di giocare tutte le loro carte solo sulla riduzione dei costi.
Se questo è il nocciolo teorico, molto vasta è la documentazione analitica e statistica che il Rapporto 2006 propone: dalle cifre a confronto sulla spesa sociale nei diversi paesi della Ue, all’analisi dei problemi che derivano dal fenomeno inarrestabile dell’invecchiamento (la demografia sta trasformando le società come la globalizzazione), passando per la scarsissima partecipazione delle donne italiane al mercato del lavoro. Uno spreco incredibile di risorse, un vero e proprio limite allo sviluppo, come ha notato anche Marcello De Cecco che con Paolo Bosi ha commentato ieri il Rapporto. Punto centrale del rapporto e del dibattito che si è sviluppato ieri all’università, è quindi quello relativo alla necessità di rilanciare il welfare, adattandolo alle nuove società e alle nuove domande che emergono. C’è da tenere conto dell’invecchiamento tendenziale della popolazione (e quindi della modificazione della domanda previdenziale e sanitaria), ma c’è anche da tenere conto del nuovo mercato del lavoro. Delle donne che continuano a lavorare ancora troppo poco e quando lo fanno sono costrette al doppio lavoro con le incombenze domestiche e famigliari e dei giovani che – per i nuovi contratti più o meno atipici o più o meno neri – stanno completamente fuori dal sistema di protezione sociale.
Guardando all’Europa, ha detto Pizzuti spiegando le parti del Rapporto relative alla spesa sociale nella Ue, siamo di fronte a un mezzo fallimento o comunque a una crisi del modello sociale storico. Il welfare europeo era stato rilanciato con il vertice di Lisbona nella primavera del 2000. In quella riunione, considerata un punto di svolta nella costruzione europea, si era deciso di mettere sullo stesso piano della crescita la lotta alla povertà e all’esclusione sociale. La strategia di Lisbona, però, è rimasta sulla carta e nell’ultimo appuntamento del Consiglio di primavera del 2005, si è deciso di concentrare l’attenzione sulla crescita e l’occupazione, mettendo per ora da parte la lotta all’esclusione sociale. Un mezzo fallimento, dunque, o comunque una politica che sconta una difficoltà evidente soprattutto dopo la bocciatura francese e olandese.
Il modello sociale europeo stenta dunque a trovare la sua nuova strada, ma ci prova. Anche perché – come ha notato ieri De Cecco – o si riuscirà a estendere il modello europeo, oppure si americanizzerà l’Europa. E se il modello europeo stenta a decollare, anche la specificità italiana necessità di molti aggiustamenti. Lo si vede chiaramente sia sul fronte delle pensioni, sia su quello della spesa sanitaria. L’Italia continua a essere molto indietro, in Europa, nella classifica sulla spesa pubblica per protezione sociale. Guardando le tabelle e i numerosi grafici del Rapporto (soprattutto nell’appendice statistica) ci si rende conto molto bene delle differenze tra il modello italiano di stato sociale e quello prevalente nel resto dell’Europa, soprattutto nei paesi del nord. In Italia sopravvive un modello costruito sulla società fordista. Pesano molto le pensioni e nel sistema pubblico si continuano a scontare diseguaglianze e vere e proprie sperequazioni. Sempre De Cecco ha fatto notare ieri la sproporzione tuttara esistente tra i contributi del lavoro autonomo alla previdenza e quelli versati dal mondo del lavoro dipendente. Ma una delle anomalie negative più evidenti riguarda la differenza sostanziale nella destinazione delle risorse per i giovani e l’istruzione. Il confronto è negativo sia se si guarda all’Italia e agli altri paesi, sia se si guardano le regioni italiane, dove le differenze tra nord e sud e tra zone avanzate e arretrate continuano ad essere abissali. Colpisce, per esempio, la differenza nei livelli di istruzione tra nord e sud. E colpisce uno degli approfondimenti sulla mobilità sociale. «Il figlio di un laureato – si legge nel Rapporto – ha una probabilità di laurearsi quasi 7 volte superiore al figlio di un individuo che ha al massimo l’istruzione dell’obbligo». In ogni caso l’Italia, spendendo per l’istruzione solo il 4,9% del Pil, è di circa un punto al di sotto della media Ocse. Non solo spendiamo poco per l’istruzione e la formazione, ma il sistema sembra entrato in crisi. «L’indagine Pisa (Programme International Student Assessment), svolta con cadenza triennale sulle competenze letterarie, scientifiche e logiche degli studenti quindicenni dell’area Ocse, pone quelli italiani al quart’ultimo posto della classifica». Sempre secondo Pizzuti le carenze del nostro sistema d’istruzione sono determinate da tre cause principali: i comportamenti delle famiglie in tema di investimento in formazione, le caratteristiche del sistema produttivo e la domanda di competenze che da esso proviene.
Ma non è solo la scuola e la formazione uno dei punti più deboli del nostro modello di welfare. Un altra questione centrale – che diventerà tra poco di attualità nella nuova concertazione tra parti sociali e governo – riguarda gli ammortizzatori sociali e in generale del sistema di assistenza sociale. Anche questi elementi sono legati al vecchio schema fordista e continuano ad essere assolutamente carenti se si guardano nella prospettiva dei nuovi lavori dei giovani. Questi ultimi – i giovani ai quali si sono dedicate romanticante tutte le ultime riforme – rischiano di pagare due volte la trasformazione. Da una parte non hanno più lavori garantiti e dall’altra non avranno pensioni sufficienti per garantirsi una vecchiaia serena. E su questo punto si arriva a un altra delle questioni calde del momento. Nel Rapporto si analizzano infatti i ritardi nell’applicazione delle riforme previdenziali degli anni novanta. La previdenza complementare continua a essere un fatto di minoranza, mentre il nuovo sistema contributivo penalizzerà soprattutto i giovani.
Sulle pensioni siamo a un punto di svolta o quantomeno di verifica di ciò che si è fatto. Ieri il ministro Damiano ha ribadito che bisogna ripartire dalla riforma Dini, che rimane il solco su cui muoversi. Ma è anche ovvio che – come si legge nel rapporto – «la riduzione dei tassi di sostituzione (il rapporto tra la pensione e l’ultima retribuzione, ndr) che si prospetta per la generalità dei lavoratori e in particolare per la crescente schiera dei parasubordinati, pone la necessità – sociale ed economica – di migliorare le prestazioni». I fondi pensione dovranno essere sviluppati, ma non dovranno mai «eccedere» dalla loro missione originaria,, ovvero quello di creare una rendita previdenziale complementare alla pensione pubblica. Siamo in una situzione paradossale in cui si tratta di rilanciare la previdenza complementare e nello stesso tempo di rivedere la sostenibilità sociale delle pensioni pubbliche che rischiano di essere davvero troppo misere. Pizzuti lancia una proposta: che si possa utilizare una parte del Tfr per aumentare i contributi della previdenza pubblica. Bisogna riaumentare il tasso di sostituzione. Obiettivo doppio in un sistema in manutenzione continua.