Labirinto palestinese

Si avverte confusamente che le sofferenze dei
palestinesi, le solidarietà sempre più audaci che la loro
sorte suscita in Medioriente e le violente reazioni
difensive di Israele rischiano di trascinare il mondo verso
l’abisso. Il faccia a faccia tra le due popolazioni, israeliana e palestinese,
che a torto o a ragione si temono a vicenda, non può
durare. Di fatto, questa paura «giustifica» da un lato l’escalation
della repressione, e dall’altro il ricorso alla violenza
da parte dei gruppi radicali. Dall’una e dall’altra parte – come
confermano le inchieste – la maggioranza dei cittadini
aspira alla pace. Ma gli odi e gli estremismi crescono sui
due fronti, tanto che ormai si è arrivati a parlare di «guerra
fino alla morte» e di «annientamento totale».
La mancata sconfitta, l’estate scorsa, delle milizie degli
Hezbollah libanesi da parte delle truppe israeliane, e la
mancata vittoria delle forze americane sugli insorti in Iraq,
hanno ridato speranza ai gruppi palestinesi, che ricominciano
a credere nella possibilità di successo di una «guerra
popolare prolungata». Dopo aver catturato, nel giugno
scorso, il soldato Gilad Shalit (tuttora nelle loro mani)
questi gruppi hanno moltiplicato i lanci di razzi contro
Sderot e Ashkelon, che in sei anni hanno ucciso sei persone.
Nello stesso periodo la repressione nei territori occupati
ha causato 4.500 morti.
Ma la minaccia dei razzi incita il desiderio di rivincita
tra gli israeliani. Lo schieramento dei «duri» al potere, incoraggiato
dalla passività internazionale, sembra avere
carta bianca per punire la popolazione palestinese al di là
di ogni limite.
In cinque mesi, più di 400 palestinesi (di cui 200 civili)
sono stati abbattuti dalle forze israeliane, che sembrano non
avere più alcun ritegno. Il 3 novembre scorso non hanno
esitato a sparare sulle donne disarmate di Beit Hanoun. E
cinque giorni dopo, nella stessa città, ordigni israeliani hanno
ucciso venti civili, tra cui parecchi bambini.
Questo crimine – un «problema tecnico», secondo le
autorità israeliane – ha suscitato emozione nell’opinione
pubblica di tutto il mondo. E ha indotto l’assemblea generale
delle Nazioni unite, su iniziativa della Francia, all’adozione
(con 156 voti contro 7) di una risoluzione per
chiedere la fine delle operazioni israeliane a Gaza e la cessazione
di tutti gli atti di violenza.
MA NE SIAMO LONTANI. Recentemente – e nonostante
il gesto coraggioso del laburista Ophir Pines-
Paz, ministro della cultura, che ha dato le dimissioni – il
governo di Ehud Olmert non ha esitato a cooptare, nominandolo
vice primo ministro delle «minacce strategiche»,
Avigdor Lieberman, capo del partito estremista Israel
Beytenu (Israele casa nostra) che ha largo seguito tra gli
emigrati venuti dall’Unione sovietica, spesso accusati di
xenofobia.
L’ingresso di Lieberman in un gabinetto disorientato,
tentato dall’uso sconsiderato della forza, rappresenta un
pericolo per l’intera regione, e in primissimo luogo per
Israele e la sua popolazione. I grandi media europei, pure
solitamente pronti a denunciare l’apparizione di figure
estremiste nei governi dell’Unione, non lo hanno sottolineato
a sufficienza. Con più lucidità, vari giornali israeliani,
tra cui Haaretz, hanno subito lanciato l’allarme: «La
scelta di nominare il dirigente più irresponsabile e intemperante
alla carica di ministro delle minacce strategiche è
di per sé una minaccia strategica. La sua mancanza di
moderazione e le sue dichiarazioni intempestive – comparabili
solo a quelle del presidente iraniano – rischiano di
provocare un disastro nell’intera regione (1)».
Non meno chiare le parole del politologo israeliano
Zeev Sternhell, storico del fascismo europeo: a suo parere,
Lieberman è forse «l’uomo politico più pericoloso della
storia di Israele», dato che rappresenta «un cocktail di nazionalismo,
autoritarismo e mentalità dittatoriale (2)».
Paradossalmente, il rischio è aggravato dal contesto.
La recente sconfitta elettorale di George W. Bush, e la
realtà ormai palese del fallimento militare iracheno potrebbero
imprimere una svolta alla politica statunitense
in questa regione. Sembrano già profilarsi contatti con la
Siria, nonostante le accuse che pesano su Damasco dopo
il recente assassinio di Pierre Gemayel; e anche con Tehran,
il cui concorso può rivelarsi decisivo per l’uscita di
Washington dal pantano iracheno. Infine, in Palestina
sembra avvicinarsi la prospettiva di un governo di unione
nazionale.
Tutto ciò non va a genio a chi, in Israele, continua a
scommettere – come Lieberman e i suoi amici – sullo
scontro e sulla supremazia della forza. Perciò da parte loro
non si può escludere un gesto irresponsabile. Si rendono
ben conto che gradualmente, un fatto evidente si impone
alle cancellerie internazionali: la pace nella regione non
potrà essere raggiunta finché i palestinesi non usciranno
dal loro labirinto.