«L’abbiamo pestato ben bene»

Ore 11:45 di mattina. Un boato fortissimo scuote il terreno. Una pioggia di piccoli detriti cade all’interno delle mura dell’ospedale di Emergency. Ci si ripara sotto le tettoie.
Subito, tutte le ambulanze dell’Ong italiana escono a sirene spiegate. Se ne sentono subito anche altre, quelle del vicino ospedale pubblico, il Bost Hospital. Un attentatore suicida in moto, imbottito di esplosivo e camuffato da poliziotto, si è fatto saltare davanti alla centrale di polizia della città, distante solo duecento metri dall’ospedale di Emergency.
La prima ambulanza rientra nemmeno due minuti dopo, scaricando un poliziotto ferito. I pantaloni della sua divisa di panno verde sono impregnati di sangue. Torna una seconda ambulanza, con altri tre poliziotti feriti, uno in gravi condizioni: una pallina di piombo, di quelle usate dagli attentatori per rendere più letale la bomba, gli è entrata nello stomaco.
Ne arriva una terza, ma questa non si ferma davanti al pronto soccorso, proseguendo lentamente fino all’ingresso dell’obitorio. Dentro ci sono i cadaveri di due persone, padre e figlio, che si trovavano vicinissime all’esplosione. Il ragazzo, un civile, ha la testa spappolata, mentre il padre poliziotto ha il torace sventrato e un braccio mozzato. Emanano odore di carne bruciata. Le barelle sui cui vengono trasportati diventano immediatamente rosse di sangue. Contemporaneamente altri due agenti morti vengono portati al Bost Hospital.
Il bilancio è quindi di quattro morti, e almeno quattro feriti. Oltre al kamikaze, del cui cadavere non rimangono che pochi brandelli. Sul luogo dell’attentato convergono intanto militari afgani e soldati britannici della Nato, che chiudono la zona per tener lontana la folla che si è radunata. Il personale medico di Emergency si mette al lavoro sui poliziotti feriti.
Uno di loro, un giovane vestito in borghese, ferito lievemente alla testa, prima di venire dimesso dall’ospedale racconta a un infermiere afghano di Emergency di non essere un poliziotto, ma di lavorare come autista per la polizia e i servizi segreti. Ha 25 anni.
Si vanta di aver partecipato, alcuni giorni fa, al pestaggio in carcere di Rahmatullah Hanefi, il dirigente locale di Emergency nelle mani dei servizi afghani dal 20 marzo. Dice che se non lo hanno ancora rilasciato, è solo perché aspettano che svaniscano dal suo volto i segni delle violenze subite.
Il ragazzo ha pensato bene di andarsene, prima che l’infermiere facesse in tempo a riferire la cosa ai responsabili dell’ospedale.
Una testimonianza non verificabile, che ha il valore che ha, ma che fa aumentare la rabbia tra i colleghi e gli amici. Ogni giorno più in ansia per la sorte di Rahmat.

* PeaceReporter.net