La vita sfuggente di una generazione precaria

Génération 69 , così titola un pamphlet francese del 2005 (Editions Michalon) sui 30/40enni, vittime di «una sorta di sindrome di Peter Pan». E il ’69 è l’ anno dei movimenti che, dopo il maggio ’68, già si incamminano verso l’autunno operaio. Ma anche l’ année erotique del giovane, impacciato Gainsbourg dell’era pre-Jean Birkin, mentre sbiadite e surreali immagini rimandano le fasi dell’ allunnaggio . C’era già tutto in quell’anno: un misto di disincantata, divertita e naif «società dello spettacolo», l’ultimo (ma davvero?) «conflitto di classe» del ‘900, insieme agli scenari fantascientifici evocati dal cospirazionismo à la Philip K. Dick o da Martin Landau, uno dei protagonisti del serial tv Spazio 1999 , o dalla saga di Star Trek . Ecco gli albori che già segnano i futuri sentieri interrotti della «generazione del labirinto» (François Sand, I trentenni , Feltrinelli, 2006, euro 7,50), ovvero la generazione precaria , dei «mille euro», low cost , liquida, ormai quasi gassosa per la sua evanescenza. Dall’estate appena trascorsa in poi un susseguirsi di pubblicazioni e inchieste, articoli di costume e gossip, noiose analisi militanti e divertenti chiacchiere da doposcuola hanno azzannato quei 25-40enni, nati dopo il ’68 e prima del mundial di Spagna. Ma «generazione» è qui usata nell’accezione elaborata da Enrico Palandri nel suo struggente Pier. Tondelli e la generazione (Laterza, 2005): «il conflitto è ciò che separa, espelle. Il termine generazione lo utilizziamo per riferirci a questi cicli collettivi di rivolta e autoidentificazione nella storia». E se di conflitto e rivolta questa generazione sembra averne vissuti pochi rispetto a «quelli del ’77» o a «quelli del ’68», tuttavia molte donne e unomi di questa generazione hanno attraversato il post-punk elettronico e dark, l’85 delle Mafalde, l’89 del «tutte/i a Berlino», la Pantera e i centri sociali, la prima guerra nel Golfo, i primi attacchi psichici di Luther Blissett, i rave e le performance queer, ma anche le dance hall ragamuffin di Fuecu! , avendo un’ideale colonna sonora nel rapadopa di Stop al panico o nel rap infuocato dell’ OndaRossaPosse . Per arrivare a Seattle, Praga, conoscere la mattanza di Napoli e la «Genova luglio 2001». Ed ora questi 25/40enni vogliono guardarsi negli occhi per parlare di questa generazione «usata e gettata», asservita all’insicurezza lavorativa, quando invece vorrebbe gioire di una intermittenza del lavoro e di una continuità di reddito. Per questo non si accontenta di ricette lavoriste e vorrebbe investire le istituzioni di altre proposte: la definizione di un nuovo welfare , fatto di reddito, servizi e garanzie sganciate dalla prestazione lavorativa, per recuperare i 30 anni che ci separano dai modelli sociali di gran parte d’Europa. E al contempo questa gallassia di precari prova a sovvertire la propria condizione di incertezza, superando l’isolamento in cui vorrebbero schiacciarla, per creare transitorie, scriverebbe un filosofo amante dei paradossi, «comunità di chi non ha comunità», basate sulla condivisione dei saperi, la libera e autonoma formazione e fruizione di cultura, innovazione tecnologica, agitazione politica. Parafrasando lo scrittore americano Donald Barthelme questi precari «continuano a muoversi, a giocare di rimessa», perché i «frammenti sono le uniche forme in cui hanno fiducia» e finiscono per ritrovarsi più nelle frammentarie narrazioni dei giovani «narratori precari(e)», che nel vuoto chiacchiericcio della poitica istituzionale o sindacale. E’ questo il background che ha alimentato Incontrotempo 3 – festa delle precarie e dei precari , che si è svolto al laboratorio occupato e autogestito Acrobax. E all’interno di questo «happenig» era previsto un incontro con giovani narratrici e narratori (tra presenti e non: Aldo Nove, Mario Desiati, Alessandro Leogrande, Giorgio Falco, Francesco Dezio, Andrea Bajani, Federico Platania, Christian Raimo, Roberto Carvelli, Valerio Mattioli, Michela Murgia, Nicola Lagioia, Francesco Pacifico), invitati ad un’affollata discussione su Letteratura a progetto – Come si scrive precarietà? . Sono scrittori e scrittrici che hanno narrato storie di ordinaria precarietà e la discussione ha cercato di sbrogliare la matassa del perché e come parlare di un condizione lavorativa ed esistenziale tanto evidente quanto sfuggente. Incontro euforico che sigillato alla fine un primo impegno di lavoro in comune: creare un «laboratorio di scrittura» propedeutico però alla costruzione di un condiviso protagonismo sociale dei precari. Punto di partenza di questa composita generazione è il rifiuto dei call center – le nuove catene di montaggio delle industrie della telecomunicazione descritte con sarcasmo da Michela Murgia e Giorgio Falco -, dei contratti a termine nelle fabbriche post-fordiste dell’« operaio tamagotchi» (Francesco Dezio) e il disincanto verso la retorica della società della conoscenza che emerge dai blog dei «lavoratori immateriali». E questo, è stato più volte sottolineato durante l’incontro, accade proprio quando le politiche finanziarie creano il cuneo fiscale per i boiardi delle stesse imprese e società di telecomunicazione che creano le gabbie dei call-center . Per evitare di essere fagocitati da misere scelte individuali, l’invito a stabilire un’alleanza intergenerazionale con «sorelle e fratelli maggiori» non riconciliati e continuare a tessere una rete sociale che blocchi il ritmo infernale della «ciclotimìa» (il passaggio dal lavoro al non lavoro, da un contratto all’altro). Certo anche così facendo i precari rimangono ai margini, ma creano però un’eccedenza di relazioni sociali indispensabile alla costruzione di vie di fuga dall’«esistenza precaria». Provano cioè ad essere sabbia e non la «vaselina dei quartari», come direbbe Luciano Bianciardi. Con creativa lentezza provano quindi a mettere in comune le loro autonarrazioni , per fare il salto successivo: evocare una «cospirazione precaria» pregna di intelligenza tattica e strategica. Anche per questo vale la pena concludere evocando il brindisi della «Bologna partygiana» di inizi anni ’80, narratoci a suo tempo da Pier Vittorio Tondelli: «saluto al talento della mia generazione»! Con in più l’auspicio dinamitardo protagonista del Thomas Pynchon di V : teniamoci «al corrente degli ultimi avvenimenti, sempre in cerca di qualsiasi notizia che ci faccia presagire, seppur minimamente, il caos».