La visione di rigore militare ed etico dello Stato è inconciliabile con i diritti costituzionali

Il I settembre 2005 ci siamo occupati, su queste pagine, della vicenda giudiziaria di Adriano Ascoli, il tecnico informatico di Calci (Pisa) poco prima incappato nelle maglie della giustizia, insieme a due suoi compagni (Luigi Fuccini e Giuliano Pinori), con la pesante accusa di «fiancheggiamento» delle Brigate rosse–Partito comunista combattente. All’origine della vicenda era una chiamata in correità da parte di Cinzia Banelli (pentita dell’ultima generazione delle “nuove Br”), che tuttavia ha sempre risolutamente smentito la tesi dell’internità degli imputati al «partito armato». In quell’articolo raccontavamo che Ascoli – a carico del quale non figurava alcun elemento probatorio – era detenuto in regime di isolamento nel reparto “Venezia” di Poggioreale. E sottolineavamo come, non potendo provare l’ipotesi dell’effettivo legame con la trama eversiva, gli atti d’accusa nel processo di primo grado avessero chiamato in causa l’idea – alquanto bizzarra – di «militanza esterna».
Da allora questa storia è andata avanti: dopo nove mesi di carcere duro, Ascoli ha ottenuto gli arresti domiciliari. Ma lo scorso 19 dicembre il secondo grado di giudizio ha confermato la sua appartenenza al contesto associativo, senza nulla concedere alle argomentate tesi della difesa. In un processo di questo tipo il clima che lo precede gioca spesso un ruolo assai rilevante. La pubblicazione sulla stampa di illazioni “suffragate” da testi contraddittori non riscontrati negli atti non deve aver contribuito alla serenità di un giudizio già di per sé informato da una esplicita ottica emergenziale. Lo stesso vale per il protagonismo del Ros, che ha affiancato e talvolta scavalcato la Digos nelle indagini sull’eversione toscana. Il risultato è la conferma della condanna a quattro anni di detenzione con il rifiuto delle attenuanti generiche, in ragione – così ha stabilito il giudice d’appello – dell’«attuale permanenza» del vincolo organizzativo e del presunto rischio che tale vincolo perduri e si rafforzi.
Che cosa possiamo dire a questo punto? Poche cose, a cominciare dal fatto che – fermo restando il pieno rispetto per le prerogative dell’autorità giudiziaria – ci pare di poter leggere nella sentenza d’appello una sorta di giudizio etico e ideologico. Come se, più che valutare l’operato degli imputati (stando agli atti privo di rilievi penali specifici), si fosse voluto affermare – contravvenendo ai criteri più volte espressi dalla Cassazione – un principio teorico generale, e cioè la necessità di punire qualsiasi posizione eversiva in quanto tale. La semplice idea eversiva, non accompagnata da comportamenti concreti – ha chiarito la Suprema Corte – non integra il reato, ed è dunque tutelata proprio da quell’assetto costituzionale dello Stato che essa, contraddittoriamente, mira a travolgere. Perché la sussistenza di un legame tra l’imputato e un’organizzazione sia certa, e condannabile, devono essere forniti gravi e precisi indizi comprovanti l’effettivo ruolo svolto all’interno dell’organizzazione stessa.
Nel caso in questione la pubblica accusa non poteva disporre di tali elementi. Ha quindi dovuto ammettere la marginalità del procedimento e degli stessi imputati e ipotizzare essa stessa una riduzione della pena. Sicché, nel chiedere la conferma del giudizio di primo grado, si è poi lungamente soffermata sul contesto di emergenza generale. Collegando persino l’11 settembre (l’attacco alle Due Torri di Manhattan e l’avvio della guerra santa contro il «terrorismo internazionale») ai fatti nostrani, e istituendo un nesso tra l’evoluzione delle leggi antiterrorismo nel mondo e la necessità di un giudizio esemplare nel caso specifico dei tre imputati.
Ecco il punto. Ecco ciò che ci pare preoccupante: un sintomo grave della degenerazione emergenzialistica che rischia di travolgere l’ordinamento del nostro Stato di diritto. Questa visione di «rigore militare» ed «etico» dello Stato – come la stessa accusa l’ha definita – è inconciliabile con i diritti costituzionali. Non per caso cresce in Italia il numero delle Procure in cui la nozione di «vincolo associativo» viene estesa oltremisura, a supportare le imputazioni “creative” di «militanza esterna», «militanza elastica» e «associazione informale».
Nel nostro caso, ciò che ci allarma non è soltanto che, qualora la sentenza di appello divenisse definitiva, il regime attenuato di cui Ascoli gode da quasi un anno (tenendo una condotta irreprensibile) dovrebbe essergli revocato. C’è anche qualcosa di più inquietante appunto perché più generale. In questo accanimento non privo di propensioni persecutorie ci sembra di intravedere una volontà di vendetta contro chiunque abbia sfiorato, anche solo tangenzialmente, la vicenda dell’eversione di sinistra. E, contemporaneamente, il segno di un clima complessivo assai pericoloso, nel quale le leggi speciali e la riduzione delle libertà civili e politiche sono un prezzo inevitabile per il governo della società in una congiuntura storica di «guerra permanente».
I lettori di questo giornale hanno piena consapevolezza di questi nessi e della loro gravità. Sanno che non ci si può mai illudere che quanto oggi càpita ad altri coinvolgerà sempre e soltanto altri. Ma quanti, in Italia, sono altrettanto coscienti della malattia che nascostamente minaccia i nostri sistemi democratici? L’erosione dei margini di libertà e l’attacco alle garanzie giuridiche sono solo una delle facce di una profonda crisi della democrazia che vede il prevalere di logiche oligarchiche, l’operare di poteri irresponsabili, il proliferare di sedi decisionali informali, sottratte al controllo pubblico. Se questo è vero, la necessità di uscire dall’emergenza e di riconquistare la piena esigibilità del diritto di critica non chiama in causa soltanto i soggetti attivi nel dissenso e nelle lotte. Riguarda da vicino, specularmente, tutti coloro che hanno a cuore la tenuta democratica del nostro Paese.