La vera posta

Non ho votato Rifondazione perché Fausto Bertinotti diventasse presidente della Camera. E’ un suo diritto, l’elettore delega, ma può sperare. E io non lo speravo nei panni di speaker della discussione parlamentare, ché altro non potrà fare: anche le sortite pubbliche dovranno essere contenute. Lo speravo come sollecitatore continuo del governo e nel governo di una scelta, per quanto mediata, esplicitamente di sinistra. Bertinotti dice di ispirarsi a Pietro Ingrao. Ma Ingrao fu spedito alla presidenza della Camera perché dava fastidio a Botteghe Oscure, promoveatur ut amoveatur. La Cdl è in perfetta malafede quando si agita perché il più radicale dei leader di sinistra si contenta di discutere e governare l’agenda dei lavori a Montecitorio. Ed è ancora più strano che tanti di Rc si sentano da questa nomina sdoganati. Ma da che? E da chi?
Non mi impressiona tanto il metodo. Se tutto il problema si riduceva agli equilibri nell’Unione – a me questo a te quello – cinque persone dovevano riunirsi, parlarsi, sbrigarsela tra loro e riaffacciarsi uniti, senza lettere di Fassino, silenzi di Prodi, ritiri di D’Alema, incursioni di Cossiga e Andreotti. Mi impressiona che dal 10 aprile siamo costretti soltanto a questo spettacolo. Se la Cdl ci sguazza, è che gliene è stato offerto il destro. Se ha da essere un mercato, tenetelo fra voi, viene da dire. Anche se colpisce che per la presidenza della Repubblica nessuno del ceto politico sembra pensare a una personalità che non faccia parte del giro più prossimo: non a un Gustavo Zagrebelski, non a una Tullia Zevi, non a uno Stefano Rodotà, non a una Tina Anselmi – i primi che mi vengono in mente fra coloro che esistono non soltanto per virtù di qualche segreteria.
Il tutto sarebbe fastidioso ma meno grave se non nascondesse un generale scansarsi dal guardare in faccia lo strappo avvenuto fra centrosinistra e paese, che le primarie avevano occultato. Sembra che nessuno se ne accorga e ne tenga conto. Neanche nell’imminenza delle amministrative e del referendum sulla Costituzione che, se dovesse fallire, sarebbe la peggiore sconfitta, e per decenni: se lo si tiene basso, chi indurrà l’elettore, già malmostoso, a infilarsi per la terza volta in meno di tre mesi in una cabina elettorale?
Se è vero, come credo, che a mettere assieme le molte anime del centrosinistra è stata l’urgenza di finirla con un degrado della democrazia come in Italia dopo il fascismo non s’era mai visto, questa dovrebbe essere la preoccupazione principale. Il degrado non è una parentesi, dilaga, allaga, fa marcire. Prodi e Scalfari si danno più pensiero dei conti pubblici: ma neanche questi sono una questione contabile. E’ una questione pesantemente politica, l’elettorato poco ne sa e molto teme dai diktat del Fmi e di Almunia. Chi è meno abbiente teme come la peste le «riforme strutturali» cui il nuovo governo è pressato ancora prima di formarsi, salvo la scelta prodiana di Padoa Schioppa. Sa solo che finora esse hanno significato tagli alle pensioni, riduzione della spesa pubblica per scuola e sanità, stretta del potere d’acquisto. Potrebbe non esser così? Forse. Ma lo si spieghi e in chiaro. Non si dimentichi che dopo i famosi sacrifici per entrare nell’euro doveva venire una fase più confortevole che non arrivò mai, mentre i poveri sono diventati più poveri, i ricchi più ricchi, i precari più precari.
E passiamo sulle molte altre divisioni trasversali sulle quali il centrosinistra si ostina a tacere: dalla laicità alle questioni che ormai la tecnologia propone sul corpo, delle donne e non solo, sulle quali ha da finire la bufala della «libertà di coscienza», premurosamente avanzata dopo un inchino di passaggio alle virtù della buona religione. Certo nulla sarà facile. Per questo ci si aspettava un impegno prioritario, senza tracheggiamenti, della coalizione passata per miracolo o almeno dalla sua sinistra. Sembra sfuggire a tutti in quale confusione di idee, interessi, incertezze e paure il paese è aggrovigliato. E questo fa più paura delle convulsioni del Cavaliere.