Il ministro degli esteri D’Alema ha promesso ai capigruppo dell’Unione, in cambio del ritiro degli emendamenti, una mozione parlamentare che impegni l’Italia a «promuovere una ridefinizione della missione Isaf in Afghanistan». Arriva però un po’ tardi: la missione Isaf è stata ridefinita quando, l’11 agosto 2003, la Nato ne ha assunto il comando senza mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che solo dopo ne ha preso atto. Non solo: nell’intervento alle commissioni difesa di Senato e Camera, il ministro Parisi ha ridefinito l’intero quadro della politica militare e, contestualmente, della politica estera italiana.
Compiti fondamentali delle forze armate sono «la difesa degli interessi vitali del paese contro ogni possibile aggressione» e «il contributo alla gestione delle crisi internazionali». Per «produrre sicurezza» esse devono operare in «uno spazio che si è allargato a dismisura finendo con l’estendersi a tutto il mondo e proiettandoci dalle tre dimensioni classiche della nostra politica – europea, atlantica e mediterranea – ad una missione assolutamente globale». In tale quadro «l’Italia dovrà muoversi nei prossimi anni, assumendosi oneri e fornendo contributi che siano proporzionali al suo status politico e alla sua capacità economica». Non fare questo significherebbe «porci a margine della comunità internazionale».
Parisi ricorda che oggi l’Italia impegna all’estero oltre 30mila militari su base rotazionale, più 3mila pronti a intervenire. Ma per mantenere e potenziare tale capacità occorre assumersi ulteriori oneri anche in termini di bilancio: vi è una «carenza di risorse» che può incidere sulle capacità operative delle forze armate, il cui personale assorbe oltre il 70% del bilancio della difesa (l’indennità di missione è di circa 4mila euro mensili aggiunti alla paga). Ciò può portare a «inaccettabili situazioni debitorie nei programmi internazionali»: tra questi (anche se Parisi non lo dice) vi è l’impegno ad acquistare, oltre a 120 caccia Eurofighter, altrettanti Joint Strike Fighter statunitensi il cui costo è salito, ancor prima di divenire operativi, da 66 a 84 milioni di dollari l’uno. Occorre quindi «un flusso di risorse costante e coerente con gli obiettivi». I preannunciati tagli alle spese sociali servono dunque ad accrescere la spesa militare italiana che, già al 7° posto mondiale con oltre 27 miliardi di dollari annui, deve essere aumentata. Per la «missione globale» occorrono sia militari preparati e ben pagati, sia costosissimi sistemi d’arma.
La nostra componente militare – sottolinea il capo di stato maggiore della difesa Di Paola – deve essere trasformata per acquisire una «connotazione fortemente expeditionary (usabilità, proiettabilità e sostenibilità delle forze in teatri esterni anche a grande distanza)» e allo stesso tempo una «interoperabilità multinazionale» (Casd, 20 giugno).
Il «teatro esterno» in cui devono essere sempre più proiettate le nostre forze armate è la fascia di «instabilità e crisi» che attraversa l’Eurasia: qui sono a contatto la parte del mondo che è «soggetto e oggetto della globalizzazione» e quella che è «esclusa e sempre più marginalizzata»; qui si trovano «le aree di primaria importanza strategica per la presenza di fonti energetiche»; qui si trovano Cina e India il cui sviluppo economico, che permetterà loro nei prossimi 15 anni di raggiungere e superare molti degli attuali paesi più ricchi, «non potrà non restare senza conseguenze nella dimensione della sicurezza e stabilità». Viene così adottata la strategia del Pentagono che, nel rapporto del 30 settembre 2001, avverte: «Esiste la possibilità che emerga in Asia un rivale militare con una formidabile base di risorse».
E’ per queste ragioni e non per altre che le forze Nato sono state portate in Afghanistan a integrare le forze Usa e poste sotto il Comando delle forze combinate agli ordini del gen. Eikenberry, a sua volta dipendente dal Comando centrale Usa. E’ di conseguenza questo comando a stabilire i compiti operativi anche dei militari italiani, nel quadro sia della missione Nato sotto paravento Isaf, sia di Enduring Freedom, che sono due facce della stessa guerra condotta in Afghanistan e Iraq. Anche se Parisi si dice certo che «il mondo del futuro non sarà quello ottocentesco delle politiche di potenza» (Casd, 20 giugno), una cosa è certa: l’imperialismo ottocentesco, cambiatosi d’abito, è ancora vivo e vegeto.