La tv alla guerra di Bush

Armi di inganno di massa: così il giornalista statunitense Danny Schecther definisce i media Usa, ridotti a strumento di una propaganda menzognera. Quella messa in atto per convincere gli americani e il mondo che fosse giusto attaccare l’Iraq perché Saddam era pronto ad usare i suoi mai trovati ordigni di distruzione di massa. Schechter è in Italia per illustrare la sua tesi (ieri a Roma presso la sede della stampa estera, oggi alle 18 a Milano alla Festa de l’Unità) e il film in cui viene sviluppata, di cui l’Unità cura la diffusione nel nostro Paese. Il dvd sarà in edicola a partire da domani.«Uno dei più feroci critici» del sistema informativo americano, definisce Schechter il direttore de l’Unità Antonio Padellaro, presentandolo al pubblico. E lui sintetizza la gravità dell’involuzione che mina la credibilità dei media Usa, in una efficace formu-
la: cultura «embedded». Quei 600 giornalisti aggregati alle truppe Usa in Iraq, e condannati a descrivere unicamente il microscopico pezzettino di realtà bellica che la superiore autorità militare consentiva loro di sbirciare, non sarebbero insomma che l’epifenomeno di una più generale e pervasiva tendenza a condizionare pesantemente la conoscenza dei fatti e la loro descrizione.
«Siamo passati dal giornalismo basato sui fatti al giornalismo basato sulla fede», spiega Schechter, uno che conosce il mondo mediatico americano in tutte le sue espressioni, avendo lavorato per giornali, riviste, e per i maggiori network televisivi, prima di dedicarsi sul sito internet «mediachannel.org» all’esame penetrante delle tecniche e dei contenuti comunicativi. Con una precisione analitica che gli è valsa il soprannome di «news dissector». È soprattutto nelle trasmissioni tv, afferma Schechter, che le notizie, il background, la spiegazione dei fatti, lasciano il posto all’accumulo caotico di dettagli e di breaking news decontestualizzate e drammatizzate in stile hollywoodiano. Con riferimento ai primi mesi del conflitto iracheno, Schechter sostiene che «è stato raccontato senza parlare dell’Iraq. C’erano solo i buoni, cioè noi, e il cattivo, Saddam. Le notizie erano igienizzate, c’era la guerra senza i cadaveri. In ossequio al principio “all about us”, si dava risalto unicamente a ciò che riguardava noi, le vittime civili irachene non comparivano». Impressiona un dato: su 800 esperti apparsi sugli schermi, solo 6 erano contrari alla guerra. Difficile in condizioni simili che qualcuno potesse dubitare. Bisognava credere. O con noi, o con loro, diceva Bush. La fede, non i fatti.
Inquietante in questo quadro l’ipotesi che i giornalisti possano essere diventati «bersaglio» di deliberati attacchi da parte dell’esercito americano. Nel dvd si ricorda in particolare la cannonata contro l’hotel Palestine, a Baghdad, e l’uccisione di due cameramen, su cui non è mai stata permessa un’inchiesta indipendente. Ma non è il solo episodio. L’intimidazione violenta della stampa, particolarmente quella non allineata con il potere, potrebbe fare parte di un grande progetto neo-con per il controllo dell’informazione. Una possibilità che nel dibattito alla Stampa estera, viene avallata anche da Giovanna Botteri, del Tg3. Toni Capuozzo, di Canale 5, contesta la «demonizzazione» del giornalista embedded. Secondo lui, l’importante è che non tutta l’informazione si riduca a quello. Franco Di Bella, direttore del tg3, vede all’origine dei problemi enunciati da Schechter, il pesante intervento finanziario di «fondazioni che hanno spostato centinaia di giornalisti verso il campo conservatore». Valentino Parlato, ex-direttore del Manifesto, teme che l’Italia replichi il modello Usa.
Un quadro preoccupante quello descritto da Schechter, che tuttavia rifugge dal pessimismo apocalittico. I media americani si stanno riscattando, rileva, nel modo in cui trattano la vicenda Katrina, con cronache e reportage ricchi di fatti e di critiche.