La trappola delle due camicie

Un incontro tra economisti non omologatial primato del mercato.Per incalzarela sinistra a trovareun’alternativa possibile.Venerdì, 30 settembre,a Roma,cercheremo di metterein discussionele ragionidel radicamentoideologico e materialedegli orientamentineoliberistinella politica economicaitaliana ed europea

Le invettive contro il governo in carica sono da sempre appannaggio del popolo, che non possiede strumenti intellettuali idonei a spingersene al di là. Esprimono disagio, malessere, voglia di ribellione; e poiché il proposito di Lenin di rendere anche la casalinga capace di esprimersi consapevolmente su cosa, come e per chi produrre è ben lungi dall’essersi inverato, perfino nella moderna società della scuola dell’obbligo e di massa, le invettive non indicano mai soluzioni e finiscono così col testimoniare di un bisogno e, a un tempo, dell’incapacità di soddisfarlo. Non diversamente accade quando a inveire sono gli intellettuali, che di strumenti per indagare la realtà dispongono (o dovrebbero disporre): anche in questo caso, infatti, l’invettiva testimonia semplicemente di un’impotenza, più precisamente dell’incapacità del bagaglio conoscitivo del supposto intellettuale di indicare un’alternativa allo status quo.

Il problema è che solo raramente l’invettiva dell’intellettuale si presenta come tale: più spesso, egli preferirà paludarla in modo consono al suo proprio rango, dissimulando così la propria impotenza – non sta bene che chi sa leggere e scrivere e far di conto si abbassi al livello di chi urla uno slogan in piazza perché non sa far altro. Allora, però, il mascheramento diventa pericoloso, perché può indurre il popolo a credere che l’intellettuale abbia una soluzione, mentre questa semplicemente non c’è.

Critica o invettiva?

Consideriamo, ad esempio, le critiche ricorrenti di molti intellettuali di area «unionista» al reiterato e persistente sforamento dei conti pubblici da parte del governo in carica. Facciamo finta che criticare un governo di centrodestra perché non è sufficientemente «rigorista» sia una cosa di sinistra e chiediamoci: è una «critica», qualcosa che cioè può mettere capo all’indicazione di un’alternativa, o è semplicemente un’invettiva? Se si vuole rispondere con onestà, bisogna muovere da un fatto indiscutibile, e cioè che il governo in carica si è trovato a gestire un programma di tagli alla spesa in un contesto internazionale recessivo. Ha dovuto cioè provarsi a rispettare i vincoli del Patto di stabilità senza l’aiuto di una domanda estera che lenisse le ferite inflitte al prodotto interno, all’occupazione e alla distribuzione dei redditi da una politica economica restrittiva come quella che, in grazia appunto del Patto di stabilità, dovremo mantenere fino a quando il nostro debito pubblico non si sarà ridotto al 60 per cento del Pil (ora è oltre il cento per cento).

In questa situazione, ha fatto quel che ha fatto con un occhio al bilancio e l’altro agli elettori (la preoccupazione di breve termine di tutti i governi). Gli si sono rimproverati i condoni: ha obiettato (con qualche ragione) che il loro successo testimonia che l’evasione fiscale durante gli anni precedenti non era certo diminuita. Gli si sono contestate le cartolarizzazioni: ha replicato (anche qui con qualche ragione) che aveva cominciato l’Ulivo a farle, quando il ciclo economico internazionale che l’aveva assistito aveva mostrato le prime incrinature. Gli si è imputata l’assenza di politica industriale: ma anche qui, a parte il fatto che Tremonti è stato l’unico a dire che sulle privatizzazioni era forse il caso di ripensarci un po’, chi ha memoria di una qualche politica industriale del centrosinistra? Forse le rottamazioni? Oppure la Dual income tax, che ha consentito a una miriade di piccoli imprenditori di comprarsi il gippone e spacciarlo per investimento in beni strumentali a tassazione ridotta?

Un programma per le primarie

C’è piuttosto da chiedersi cosa avrebbe fatto l’Unione se, invece di tenere banco durante la favorevole congiuntura internazionale, avesse vinto le elezioni del 2001. Come avrebbe gestito la difficoltà di infliggere ulteriori «correzioni di bilancio» a un paese già provato dalle draconiane politiche economiche del quinquennio precedente, senza inimicarsi i suoi elettori? Avrebbe tagliato davvero o avrebbe anch’essa inscenato la penosa tragicommedia che vede periodicamente i governi nazionali nascondere i buchi di bilancio sotto il tappeto nella speranza che la Commissione europea non se ne accorga? E se davvero si fosse risolto a tagliare, cosa dove e quanto avrebbe tagliato?

Ha quindi ragione Riccardo Realfonzo (il manifesto, 24 settembre) a chiedere al centrosinistra di spiegare come costruirebbe la propria Finanziaria, cioè come si muoverebbe tra l’imperativo di riequilibrare i conti pubblici e la necessità di evitare la macelleria sociale che inevitabilmente seguirebbe all’adozione di un piano decennale di rientro dal debito, del tipo di quello patrocinato e parzialmente attuato durante il quinquennio 1996-2001. Il nodo che le «critiche» (rectius, le invettive) degli intellettuali di area unionista sistematicamente eludono è infatti che, nelle condizioni date, non è possibile tagliare la spesa pubblica senza al contempo provocare un aumento del deficit e dunque del debito pubblico. La ragione è semplice: tagliare la spesa equivale a tagliare la domanda interna e, se la cosa può essere relativamente tollerabile quando viene compensata dalla crescita della domanda estera, diventa insostenibile quando anche quest’ultima ristagna, perché allora si traduce immediatamente in recessione e disoccupazione. L’aumento della disoccupazione, d’altra parte, induce una crescita del disavanzo pubblico, sia perché cadono le entrate fiscali sia perché si attivano gli ammortizzatori sociali (indennità di disoccupazione, cassa integrazione, prepensionamenti), e in tal modo si creano le premesse perché la situazione s’incancrenisca: se allo sforamento del rapporto deficit/Pil si reagisce tagliando ulteriormente la spesa pubblica si avranno altre diminuzioni della domanda, altri aumenti della disoccupazione, altri cali delle entrate e altri aumenti delle spese. È un paradosso dal quale non è possibile sfuggire: siamo presi in trappola, proprio come quel tale che, avendo ricevuto in dono dalla madre due camicie, ne indossò subito una e si sentì dire: «L’altra non ti piace?».

Proprio per ciò, sarebbe bene che l’Unione chiarisse le sue posizioni al riguardo. Magari i candidati potrebbero schematizzare fin d’ora un programma pluriennale di bilancio, che indichi con chiarezza le diverse priorità in termini di impieghi pubblici delle risorse, calcoli le spese che si ritengono necessarie e individui l’ammontare di imposte presenti o differite occorrenti per finanziarle. Forse così le primarie potrebbero davvero trasformarsi in un utile esercizio di democrazia e scansare definitivamente il rischio di risolversi in una kermesse plebiscitaria.