La tragedia della guerra giusta

La II guerra mondiale vista da uno storico e da un giornalista americani: Michael Zezima in Salvate il soldato Potere (Il Saggiatore) fa piazza pulita del mito della «guerra giusta» e di molti luoghi comuni. E Chris Hedges descrive Il fascino oscuro della guerra in un libro per Laterza

Quando venne fermato per eccesso di velocità da un poliziotto in motocicletta, che lo ammoniva sul rischio di uccidere qualcuno, il maresciallo Arthur Harris, direttore del Comando aereo britannico durante la seconda guerra mondiale, rispose orgoglioso: «Ragazzo, io uccido migliaia di persone ogni notte». Rivendicava così la ruvida pienezza dell’appellativo di «bombardiere», valsogli per un impegno bellico assoluto, centrato sulla strategia della terra bruciata nelle «retrovie» del nemico germanico, attuata mediante bombardamenti a tappeto. E si collocava anche nel solco di una tradizione, che poteva vantare la (quasi) primogenitura in Sir Winston Churchill il quale, a onta della bonarietà di un’immagine sapientemente costruita, aveva agito da precursore teorizzando – nel 1919 – la necessità di impiegare armi chimiche contro i «tenacissimi arabi» dopo avere, nel 1910, proposto la sterilizzazione di centomila «degenerati mentali» e la reclusione di altri in campi di lavoro gestiti dallo stato. Lungi dall’essere perversioni soggettive, quelle erano, in realtà, significative «stazioni» di quel procedere occidentale verso la dismisura del conflitto moderno, in cui una parte essenziale era recitata dai meccanismi di deumanizzazione del nemico, lungamente rodati durante le varie imprese coloniali a opera dei «missionari» bianchi ed entrati nella prassi costituente della guerra novecentesca nella forma assoluta della contrapposizione amico/nemico. Perversioni che si accompagnavano a processi di parallela e funzionale trasfigurazione dell’evento bellico, nel quale si avvertiva l’esigenza di inoculare robuste dosi di legittimazione «morale» o «umanitaria», allo scopo di occultarne le convenienze reali, le linee di attrito tra stati industriali in competizione per le risorse e una più vantaggiosa divisione internazionale del lavoro.

Dispositivi, e «risorse», che avrebbero massicciamente operato (dopo la prima guerra mondiale, già definita dal democratico Woodrow Wilson «la più santa di tutte le guerre») anche nell’evento che si consegna alla memoria pubblica con il sigillo esemplare della «guerra giusta» e che fu pertanto accreditato di una speciale e indiscussa extraterritorialità morale, derivante dalla negatività assoluta dell’altro (ovvero la barbarie nazifascista), e di un’aura correlata di incondizionatezza etica.

Parodiando un po’ maldestramente il titolo dell’omonimo film di Steven Spielberg, lo storico e giornalista americano Michael Zezima dedica ai Falsi miti della seconda guerra mondiale (questo il sottotitolo) il volume Salvate il soldato Potere (il Saggiatore, pp. 240, € 17.50) ereditando la lezione di Howard Zinn, che da anni impugna l’ossessione narcisistica della cultura politica statunitense. E ne smonta il cruciale mito fondativo lavorando «filologicamente» a decostruirne le tappe fondamentali, le strategie e le concrete declinazioni belliche e politiche. Da un lato lo storico americano rivela le molteplici, «preventive» compromissioni dell’establishment statunitense con l’aggressività nazista, le poco considerate consuetudini razziste e xenofobe, le omissionie e le reticenze riguardo le intenzioni genocide del Führer, ma anche le attive complicità ideologiche e il sostegno materiale, in nome della comune «religione anticomunista» (ad esempio di Henry Ford, ma anche di Prescott Bush, nonno dell’attuale presidente degli Stati uniti). Dall’altro lato, Zezima passa al setaccio tecniche e procedure operative della «buona guerra», che fu il campo di prova e il laboratorio di un’efferatezza inaudita, e non soltanto nelle dimensioni quantitative.

Il quadro che ne viene fuori traduce e circoscrive le coordinate storiche e ideologiche di quella Storia naturale della distruzione (Adelphi, pp. 149, € 14.00) scritta da W. G. Sebald, nella quale tutto l’orrore dei bombardamenti si rovescia e invera nella voragine esistenziale della popolazione colpita. Che riceve, insieme alla derelizione materiale, anche un paradossale dispositivo di interiorizzazione della colpa, metabolizzata dalla letteratura tedesca del dopoguerra in una implosiva rimozione di massa, «quasi si trattasse di un terribile evento dell’età preistorica». Certo, erano in azione anche «un sovraccarico e […] una paralisi della capacità razionale ed emotiva in quanti riuscirono a salvarsi» dovuti alla proporzioni apocalittiche della distruzione tecnologica. Dunque una reazione sbigottita al dispiegamento di quell’elemento di enormità e dismisura, ma anche di «weberiana» razionalità, che ben sintetizzava nella sua cinica semplicità uno dei responsabili americani della pianificazione militare: quando, riferendosi ai carichi trasportati dai bombardieri, parlava di una «merce costosa [che] non si poteva buttare via scaricandola sui monti o in aperta campagna, dopo tutte le risorse profuse in patria per fabbricarla».

La stessa dismisura, che trasferiva e sollevava dal piano storico-umano a quello naturale, di una immanità e ineffabilità metafisica, quell’evento bellico con una repentina regressione interpretativa che lo sottraeva alle sue cause politiche e materiali, comodamente e suggestivamente consegnandolo alla condizione di «cosa in sé»: appunto, natura. Rischio, oggi più che mai palpabile se si sovrappone alla fioritura post-moderna dei conflitti «caldi» l’ambiguo velo esplicativo di una seduzione arcana della guerra, che la consegna alla zona umbratile del «mistero», dunque la eternizza.

E’ quanto fa, al di là delle buone intenzioni, il giornalista americano Chris Hedges, con il saggio Il fascino oscuro della guerra (Laterza, pp. 199, € 16.00), quando nello sforzo di raccontare la guerra, e nella pretesa di attraversarla sia sul piano fenomenologico che su quello eziologico, si ritrova a descriverla fattualmente, negli eventi più recenti, in una elencazione giornalistica di episodi tratti dagli ultimi, sanguinosi decenni. Cosa utile e importante, se non oscillasse continuamente dal generico, ma inconcludente, stigma morale, alla traballante via interpretativa del «mito nazionalistico» che, lungi dall’essere la ratio ultima, la causa remota, appare uno strumento della politica, un’articolazione operativa dei rapporti di forza.