La terza via italiana nella trappola di Kabul

Il conflitto afgano si va rapidamente “irachizzando”. I segnali sono molti: la moltiplicazione degli attacchi suicidi e degli assalti ai convogli; l’ aumento delle truppe, e delle perdite, della coalizione occidentale; un governo, quello di Karzai, che sopravvive solo grazie alla presenza di quelle truppe; la reazione verso i civili delle truppe americane attaccate, tipica di chi avverte l’ ambiente come ostile a sé e mimetico per il Nemico; le cosiddette vittime “collaterali” nei bombardamenti; l’ estensione del conflitto fuori dalle province del Sud. Non ultima, la crescente ostilità della popolazione per il prolungarsi e l’ inasprirsi dell’ occupazione militare. SEGUE A PAGINA 19 Ma anche la rivolta dei “signori della guerra” sulla questione dell’ amnistia, destinata a lavare i crimini di guerra di cui si sono macchiati i mujaheddin dopo il jihad antisovietico, approvata da un Parlamento dominato dai warlords ma che Karzai non ha ancora firmato. Su queste tensioni si innestano i Taliban che offrono ai comandanti dell’ ex Alleanza del Nord un accordo destinato a sfociare in un’ insurrezione generale contro il governo di Kabul. Un motivo ciclico, nella storia afgana, quello della “periferia contro il centro”; rinforzato, oggi, dal comune interesse di Taliban e “signori della guerra” a estendere la produzione d’ oppio, raddoppiata nell’ ultimo anno e usata, da entrambi, per finanziare i rispettivi eserciti e come “sussidio politico” ai contadini che vivono nelle aree sotto il loro controllo. L’ Afghanistan Compact, il patto tra Kabul e la comunità internazionale pare, dunque, fallito; e il “Paese dei Monti” sembra prepararsi a una nuova stagione di sangue. Anche perché sono andati a vuoto gli sforzi americani di neutralizzare le retrovie pachistane del conflitto. Il “franco” incontro tra Cheney e Musharraf non ha sciolto il nodo dell’ alleanza tra Taliban afgani e pachistani, uniti dall’ ideologia e dalla comune appartenenza all’ etnia pashtun. Cheney ha minacciato di tagliare gli aiuti economici e militari, circa 800 milioni di dollari l’ anno, a Islamabad se Musharraf non troncherà i preparativi dell’ offensiva di primavera annunciata dal mullah Dadullah. Ma in Pakistan il doppio gioco regna sovrano: a partire dagli spezzoni dell’ Isi, i servizi segreti che simpatizzano con i partiti religiosi e gli islamisti e sono contrari al riavvicinamento all’ India. La pesante, annunciata, offensiva dell’ Air Force, destinata a neutralizzare i Taliban, potrebbe colpire così anche la “terra di nessuno” delle province tribali pakistane. È in questo quadro politico e militare che si trova a operare il contingente italiano in Afghanistan. Più volte Roma ha precisato, nonostante le insofferenze americane e britanniche, che i nostri soldati non combatteranno a Sud. Ma se i combattimenti si allargassero a Ovest? Tutte le province abitate da pashtun, compresa la fetta meridionale di quella di Herat, presidiata dal contingente italiano e la vicina provincia di Farah, dove le forze speciali italiane si spingono nei pattugliamenti, sono ormai in fibrillazione. Entrambe queste aree hanno già registrato attacchi contro gli italiani: se si estendessero, la task force di reazione rapida schierata a Herat, composta da spagnolie oltre duecento militari italiani dei reparti speciali, potrebbe essere chiamata a combattere. In tal caso nessun caveat potrebbe impedirne l’ impiego. Si comprende così la preoccupazione italiana, espressa anche in queste ore, del ministro degli Esteri D’ Alema, per quanto avviene ai piedi dell’ Hindu Kush. Ogni mossa sbagliata – e in questo contesto le stragi di civili sono benzina sul fuoco – rischia di far deflagrare una situazione già esplosiva. Roma si trova davanti a un bivio. Se il quadro politico-militare evolverà al peggio, la presenza italiana non potrà mantenere l’ etichetta, già ambiguamente sperimentata in Iraq, di “missione di pace” in teatro di guerra. Per sfuggire alla trappola afgana, l’ Italia auspica un ripensamento dell’ intervento occidentale attraverso una conferenza internazionale; ma “ripensare l’ Afghanistan” non è facile. Americani e britannici in testa, guardano alle iniziative che mettono in secondo piano l’ aspetto militare, come un tentativo di sottrarsi a comuni responsabilità nella lotta al terrorismo. Fare cambiare strategia alla Nato potrebbe rivelarsi in un futuro vicino un’ impresa difficile; così come insistere sul tasto dell’ assistenza e della cooperazione con il fronte militare in piena ebollizione: i problemi di politica interna italiana, pur capaci di provocare una crisi di governo, appaiono “cronache marziane” visti dalle rive del Potomac e del Tamigi. Una volta imboccata la linea del ripensamento l’ Italia potrebbe trovarsi insomma di fronte ad un rifiuto dell’ alleato e allora dovrebbe scegliere. O si resta: e allora, prima o poi si dovrà condividere pienamente con l’ Isaf strategie militari, mezzi e uomini, problema che sorgerà anche per Spagna e Germania; oppure, seguendo lo “schema iracheno”, si manifesta un palese dissenso sulla nuova fase della missione e si torna a casa. Lo spazio per una “terza via” sarà sempre più stretto.