Traduzione di l’Ernesto online
Sono passati quasi venticinque anni da quando, nel dicembre 1989, gli Stati Uniti diedero un pugno sul tavolo invadendo Panama per catturare il suo presidente, il generale Noriega. L’intervento fu attuato mentre si prevedeva il consolidamento degli USA come unica superpotenza mondiale. Mentre l’Unione Sovietica stava cedendo spazi della sua area di influenza, i nordamericani rafforzavano la loro posizione in quello che essi denominano “emisfero occidentale”. Se la Guerra del Golfo aveva significato la messa in campo del “nuovo ordine mondiale”, la guerra di Panama rappresentò il saggio generale in cui si incominciò ad utilizzare il discorso che venne ripetuto in tutte le operazioni militari dei decenni seguenti: le guerre erano disegnate per estirpare i malfattori, proteggere gli innocenti e imporre la democrazia in tutto il mondo.
Ma le buone intenzioni non spiegano gli interventi del post Guerra Fredda quanto l’immaginario geopolitico della potenza egemonica. Al di là dei valori che hanno legittimato la loro azione di fronte alla propria opinione pubblica e a una parte delle popolazioni che li subivano, questi interventi erano parte della rivendicazione da parte degli Stati Uniti del possesso del primato a livello globale. E’ questa la chiave interpretativa dei loro intellettuali di Stato quando ridisegnano la mappa politica del mondo in funzione degli interessi degli Stati Uniti. Uno dei più influenti di questi, Zbigniew Brzezinski, ha concentrato la sua attenzione sullo spazio eurasiatico, che è il luogo in cui si concentrano le risorse energetiche di interesse strategico che devono essere controllate per garantire questo primato. E’ lì che si trovano anche i principali concorrenti dell’impresa della superpotenza. L’America Latina aveva perso il suo interesse geopolitico, essendo ormai un territorio se non conquistato, almeno addomesticato. Non a caso, lì si erano sperimentate per decenni diverse varietà di interventismo (militare, finanziario, politico) che con il passare del tempo si sarebbero esportate all’Eurasia.
Questa agenda estera è stata ampiamente condivisa dalle elites politiche statunitensi. La strategia di Bill Clinton (1993-2001) consisteva nel dare impulso all’ “ampliamento delle comunità di democrazia di mercato mentre si frenano e limitano le minacce alla nostra nazione, ai nostri alleati e ai nostri interessi”, dando un’importanza maggiore ai paesi che avessero “una rilevanza strategica”. In precedenza, il governo di George Bush (1989-1993) aveva dato il colpo di grazia all’unica alternativa politica ed economica di portata globale agli Stati Uniti, rappresentata dall’URSS. Così, per alcuni anni, il mondo è stato rappresentato come una grande tabula rasa su cui la superpotenza imponeva un ordine giusto senza doversi preoccupare di una grande macchia rossa nel centro dell’Eurasia. Suo figlio, George Walker Bush (2001-2009) ha affiancato a questo compito la Guerra Globale contro il Terrorismo, che fu la vendetta per gli attacchi dell’11 settembre 2001, ma che rappresentò una nuova offensiva per il consolidamento delle posizioni di fronte all’emergere di nuovi attori in Eurasia. Barack Obama, da parte sua, ha rafforzato la presenza del suo paese negli scenari egemonici del suo predecessore, mentre ha finito per dare impulso a un nuovo intervento militare, questa volta nel Nord Africa. Con i bombardamenti sulla Libia e l’appoggio ai ribelli, si intende dare continuità geografica alla presenza degli Stati Uniti nel “Grande Medio Oriente”,che secondo l’immaginario geopolitico dei nordamericani è lo spazio coperto dalle nazioni musulmane dalla Mauritania al Pakistan (MENA: Middle East & North Africa).
A livello internazionale, gli Stati Uniti hanno legittimato i loro interventi nel post Guerra Fredda assumendo il ruolo di protettori di alcuni diritti universali. Le alleanze etichettate come “comunità internazionale” perseguono il proprio interesse mentre si erigono a portavoce dei desideri e degli interessi dell’umanità. Sono coalizioni la cui unica linea di continuità è la leadership statunitense, sebbene a volte comprendano anche altre ambizioni nelle loro file, come quella che ora spiega i maneggi e le cospirazioni del presidente Sarkozy. Le Nazioni Unite, la NATO, l’Unione Europea, la Lega Araba e alcuni stati che si sono puntualmente aggiunti, sono stati strumenti utilizzati a convenienza in ogni intervento per assorbire in parte i tremendi costi che sarebbero stati generati da un intervento dei soli Stati Uniti. L’irresistibile ascesa di altre potenze nello scenario internazionale non ha fatto si che tale approccio abbia perso vigore. Sebbene la trappola linguistica sia stata pensata per un mondo unipolare, essa è giunta alle ultime conseguenze nella presente campagna di bombardamenti sulla Libia: nessuno dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina), né la Germania, hanno appoggiato la creazione della “zona di esclusione aerea” al Consiglio di Sicurezza.
In ogni caso, il nuovo equilibrio globale del potere non ha dissuaso anche questa volta la superpotenza. Come in altre occasioni, con belle parole e doppi standard interpretativi si è voluto negare, fino ad estremi esagerati, che sul terreno lottano due fazioni armate e, mentre in Libia si delega il raggiungimento degli obiettivi al Consiglio Nazionale di Transizione, in Bahrein irrompono con la loro missione interventista le truppe dell’Arabia Saudita. Lì si denuncia un complotto iraniano, mentre in Siria si denuncia come “ridicola” qualsiasi allusione alla possibilità che certe situazioni possano essere promosse dall’estero.
In circostanze ugualmente confuse sono stati attuati gli interventi degli Stati Uniti in Somalia, Haiti, Bosnia, Kosovo, Afghanistan e Iraq. Sempre sostenuta dalla parola d’ordine mediatica del “bisogna fare qualcosa”, ripetuta in alcuni casi mentre si taceva in altri, come quello del Ruanda, la superpotenza ha lasciato il segno nei luoghi chiave del suo concetto strategico. In essi la tecnologia militare più perfezionata era destinata a garantire la pace e i valori democratici, ma dietro di sè ha lasciato Stati falliti, come la Somalia, e giocattoli rotti come il governo degli albanesi del Kosovo. Su essi viene scaricata la responsabilità della brutta situazione che ne è seguita, dimenticata nella misura in cui si ampliano gli orizzonti e si pianificano nuovi interventi. Oggi continuano a muoversi pretendendo di ostentare un ruolo egemonico sempre più messo in discussione, ostacolando in tal modo lo sviluppo di strutture di cooperazione regionale indipendenti che sono quelle che dovrebbero facilitare le imprescindibili riforme sociali.