La super riserva di petrolio alternativo

Come si è potuto osservare negli anni trascorsi dopo il vertice di Kyoto fino a quello recente di Johannesburg, gli Usa e il loro presidente, un petroliere prestato alla Casa bianca, prevedono che nel breve e nel medio periodo la loro economia continuerà a viaggiare su automobili caricate a petrolio. Mai una previsione ha avuto più probabilità di autorealizzarsi. Principale scopo della politica infatti è stato, è attualmente e sarà quello di garantire un flusso continuo di greggio con prezzi tranquilli, ciò che significa prezzi bassi se è possibile; ma, se non è possibile, almeno stabili. L’intervento contro Saddam, in nome dell’Onu, dodici anni fa, per riportare libertà e democrazia al Kuwait, hanno consentito agli Usa di mantenere un sostanziale controllo dei giacimenti mediorientali aprendo importanti basi militari nella penisola arabica, assai malviste da una parte dei locali. La presenza Usa ha peggiorato lo stato dei rapporti con il potere saudita, invece di migliorarli e gli Usa hanno cominciato a cercare soluzioni alternative, pur sempre nell’ambito del petrolio. Del resto il recentissimo episodio della rottura tra compagnie internazionali, guidate da Exxon e Shell e il governo saudita, in tema di gas naturale, ha assicurato al petrolio un futuro senza rivali, rimandando di qualche anno l’avvento dell’idrogeno (la tecnologia più provata muove dal gas naturale); e nello stesso tempo ha consigliato Casa bianca e consorti a coltivare altri petroli. Saddam potrebbe essere la soluzione per i prossimi anni. Il controllo sul Golfo si potrebbe senza troppi traumi spostare dall’Arabia saudita, oramai divenuta inospitale, all’area strappata all’arcinemico e rappresentante la seconda riserva di petrolio per importanza.

L’Iraq il cui controllo territoriale e strategico è dunque necessario, non è però una soluzione sufficiente. La scelta dell’amministrazione petrolifera (il governo) Usa lascia intendere che la strategia sarà piuttosto quella di distribuire il carico e le responsabilità degli approvvigionamenti di greggio su molti paesi e continenti, con una particolare attenzione all’area dell’ex Urss. La Russia, in particolare, e le repubbliche asiatiche, potrebbero diventare i fornitori della sicurezza, quelli che come l’Arabia saudita dei decenni scorsi, saranno in grado di garantire i buchi di forniture.

Quindi: il controllo militare e strategico esercitato in Medio oriente a partire da Baghdad, in attesa dell’integrazione del petrolio asiatico, magari attraverso la via afghana.

Negli ultimi giorni il Wall Street Journal portavoce degli interessi economici e finanziari Usa insiste parecchio sui temi del petrolio che verrà. Un articolo uscito il giorno stesso dell’11 settembre (Jeanne Whalen: «Il piano petrolifero russo può aiutare gli Usa») contiene un elenco di tutti i fornitori di petrolio agli Usa, fotografati nel giugno scorso. La sfilata è aperta dall’Arabia saudita che esporta in Usa 1,56 milioni di barili al giorno, un quantitativo enorme, che però rappresenta soltantoil 18,1% delle importazioni totali. Subito dopo nella classifica arrivano due paesi ben più legati agli Usa: Messico con 1,45 milioni di barili al giorno e Canada con 1,44. Insieme i due paesi, alleati nel Nafta agli Usa, vi esportano un terzo del fabbisogno petrolifero. In quarta posizione, con poco meno di un milione di barili al giorno, ecco il Venezuela. In primavera le velleità di indipendenza petrolifera di quel paese furono attaccate con un colpo di stato, respinto dalla popolazione. Si vide allora che il governo Usa non poteva tollerare «ribellioni», soprattutto da chi in passato era considerato ilportavoce degli Usa nel cartello degli esportatori. Ora invece il Venezuela aveva scelto una politica di autonomia, di controllo sulla compagnia nazionale; e questo era un esempio particolarmente importante e significativo per i paesi produttori più deboli, tanto più che il segretario generale dell’Opec, Ali Rodriguez Araque è venezuelano e capace di organizzare un fronte di produttori non più disposti a ubbidire in silenzio.

Anche gli altri esportatori di petrolio in Usa sono interessanti. La Nigeria esporta 690 mila barili al giorno, il Regno unito, l’alleato fedele, ne esporta 579 mila; seguono la Norvegia e l’Angola con mezzo milione di barili ciascuna e poi ancora il Kuwait con un quarto di milione, nonché altri casi interessanti: Colombia con 200 mila barili ed Ecuador con 100 mila: e si tratta di esportazioni che opprimono le popolazioni locali, devastando la foresta e l’habitat. C’è poi, imprevedibilmente, l’Iraq che conta per 167 mila barili al giorno, e questo in un periodo in cui le esportazioni irachene erano al minimo, per un sottile gioco di rappresaglie incrociate, tra concerto delle nazioni che voleva ridurre Saddam a più miti consigli e Saddam che voleva mettere il concerto all’asciutto. Dopo Gabon e Argentina, è la Russia che chiude l’elenco degli esportatori. Sono 78 mila barili al giorno. Tutto lascia pensare che cresceranno.