La strategia per difendere l’impero: guerra in Iraq per molti anni

E’ un documento che serve a darsi coraggio quello redatto da George W. Bush dal titolo “La strategia nazionale per la Vittoria in Iraq”. Il documento, che era stato illustrato in un discorso pubblico dallo stesso presidente statunitense, reca la firma del Consiglio
di Sicurezza Nazionale ma i suoi addetti stampa hanno fatto filtrare la notizia che sia stato lo stesso Comandante in capo a redigerlo. Quello che è certo è che si tratta di un documento pieno di certezze, dalla forma didascalica, con frasi brevi e imperiose, prive del
dubbio necessario e della complessità che la situazione sul campo richiederebbe.
Non a caso il terzo capitolo si intitola “Il fallimento non è un’opzione” mentre la premessa al documento si chiude con l’affermazione indiscutibile che «la nostra missione in Iraq è vincere la guerra» e quindi «le nostre truppe torneranno a casa quando la missione sarà completata». Tanta sicumera sbandierata ed esplicitata accuratamente – il documento si compone di due capitoli molto dettagliati sugli obiettivi da darsi e da raggiungere, con la specificazione delle conseguenze negative in caso di fallimento,
oltre a un’appendice – punta sostanzialmente a tre obiettivi: reagire alle critiche, che nelle ultime settimane si sono moltiplicate, sulla gestione dell’occupazione irachena e sulla sua impasse; inviare un chiaro messaggio ad alleati e nemici sulle reali volontà degli Usa; ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, la determinazione a proseguire l’occupazione dell’Iraq per un periodo indefinito, determinazione ben esplicitata dagli «otto pilastri» conclusivi che si riferiscono a una strategia «di lungo termine». E in cui la chiave economica, oltre a quella geopolitica, rimane cruciale.
E’ dunque bene partire da qui per evidenziare la sostanza contenuta nel documento di Bush. «La produzione di petrolio – recita il testo – è passata da una media di 1,58 milioni di barili al giorno del 2003 a una media di 2,25 milioni di barili al giorno nel 2004». Attualmente l’Iraq produce 2,1 milioni di barili al giorno per effetto degli attacchi terroristici e qui risiede una delle priorità nella sicurezza del paese. Per effetto delle aspettative di aumento della produzione petrolifera, l’Iraq può divenire un paese ad alta crescita economica con un tasso del 3,7% nel 2005 che, secondo l’Fmi, potrebbe arrivare a un più 17% nel 2006. Quindi grandi opportunità riscontrabili nella nascita di 30mila nuove attività commerciali dal 2003 ad oggi, nel boom di telefonini (circa 3 milioni) e nella richiesta di adesione alla Wto come anche nella relativa stabilità della moneta. Da qui gli obiettivi economici che il documento
assegna agli Usa: «Far crescere la produzione di petrolio da 2,1 a 5 milioni di barili al giorno»; prevenire da attacchi terroristici
le infrastrutture vitali, specialmente «quelle elettriche e petrolifere»; «fare i conti con una crescita esponenziale della domanda di elettricità»; «creare un sistema di pagamenti e un’infrastruttura bancaria»; «facilitare il processo verso un’economia di mercato eliminando gli ostacoli legislativi e burocratici».
Un programma che prevede una presenza politica e militare piuttosto impegnativa anche perché l’Iraq non è solo «vitale» dal punto di vista degli interessi petroliferi e della ricostruzione di infrastrutture ma anche dal punto di vista geopolitico. «Quello che accadrà
in Iraq influenzerà il futuro del Medioriente per le generazioni a venire, con un profondo impatto sulla nostra stessa sicurezza nazionale» si dice nel testo. Il punto è spiegato con estrema semplicità: vincendo in Iraq noi vinciamo contro il terrorismo, togliendogli un «paradiso» in cui rifugiarsi e condizioniamo così l’intera regione che vedrà modificato il proprio status quo. Insomma, è il rilancio del progetto di Grande Medioriente che si avvale della procedura irachena come monito per operazioni a più
lungo termine. Inutile ricordare che se l’Iraq rischia di divenire un «paradiso» per il terrorismo è solo in seguito alla guerra scatenata dagli Usa e agli effetti perversi che essa ha generato. Del resto è lo stesso documento a smentirsi quando passa a descrivere «i nostri
nemici e i loro obiettivi».

L’entourage di Bush ammette che «i terroristi di, o ispirati da, Al Qaeda costituiscono il gruppo più esiguo anche se il più letale». In realtà esistono altri due gruppi che si contrappongono all’occupazione con ben altra consistenza: si tratta dei «rejectionists», cioè coloro che si oppongono e che potremmo chiamare “resistenti”, in prevalenza sunniti, che non hanno appoggiato il nuovo governo e che, dice il documento, difendono in larga parte vecchi privilegi. La definizione sa un po’ di appicicaticcio visto che poi viene indicato un secondo gruppo, «i saddamisti», che puntano a ristabilire il vecchio regime Ba’ath. Ora, se il primo gruppo è il più numeroso e si distingue dai seguaci di Saddam Hussein in senso stretto, ne consegue che tra loro c’è un movimento di resistenza militare più complesso e articolato e che in larga parte spiega la tenacia dell’opposizione agli Usa ma anche la ferocia con cui è stata espugnata Falluja roccaforte, non del terrorismo, ma di questo settore della guerriglia.
Definita quindi come essenziale alla difesa degli «interessi vitali degli Usa» la questione irachena «prenderà del tempo» per essere risolta. E in questo tempo gli Stati Uniti si concentreranno su una strategia basata su «otto pilastri»: «Sconfiggere i terroristi e neutralizzare la guerriglia»; «garantire la transizione a un Iraq capace di autogestire la propria sicurezza»; «aiutare gli iracheni a formare un governo nazionale coeso»; «aiutare l’Iraq a costruire una capacità di governo che provveda ai servizi essenziali»; «aiutare l’Iraq a rafforzare la sua economia»; «aiutare l’Iraq a rafforza lo stato di diritto e a promuovere i diritti civili»; «aumentare il sostegno
internazionale»; «rafforzare nella pubblica opinione il sostegno agli sforzi della Coalizione e isolare la guerriglia». Bush precisa che
non possono esserci date fissate per dichiarare chiusa la missione: come recita la conclusione del documento «in Iraq non ci sarà nessuna pace senza vittoria». Ma è chiaro che si tratta di una prospettiva di ampio periodo e con una chiara finalità: rafforzare l’influenza degli Stati Uniti in tutta la regione e fare dello scontro con il terrorismo la chiave di volta della politica internazionale
futura. Se si vuole impostare una politica estera in sintonia con quella di Washington la lettura di questo documento è altamente raccomandabile.