Quattro anni fa, nel mezzo dell’invasione Usa, andavo in macchina tranquillamente da Arbil, nel nord dell’Iraq, a Baghdad. C’erano cataste di armi abbandonate ai lati della strada, e lunghe file di ex soldati iracheni che stavano tornando a casa a piedi. I segni della battaglia erano pochi, a parte le carcasse dei carri armati bruciati, ma sembrava che tutti fossero stati colpiti dall’aviazione Usa dopo che i loro occupanti erano fuggiti.
Se cercassi di fare lo stesso viaggio oggi, verrei ucciso o rapito molto prima di arrivare a Baghdad. I ministri kurdi del governo iracheno non osano viaggiare via terra tra la capitale e la loro terra d’origine. Tre guardie del corpo del ministro degli Esteri, Hoshyar Zebari, sono cadute in una imboscata e sono state uccise quando hanno cercato di farlo un mese fa.
Tony Blair e George Bush ancora insinuano occasionalmente che la descrizione dell’Iraq come un inferno devastato dalla guerra è una esagerazione dei media. Anche se non con la stessa energia di un paio di anni fa, essi accennano al fatto che alcune parti del Paese sono relativamente tranquille. Non potrebbe esserci niente di più falso.
In realtà, la violenza viene minimizzata in modo clamoroso. Il rapporto Baker-Hamilton, fatto da influenti Repubblicani e Democratici, guidati da James Baker, ha preso solo un giorno, l’estate scorsa, nel quale l’esercito Usa aveva riferito di 93 atti di violenza in Iraq, e ha chiesto all’intelligence di riesaminare i dati di fatto. Hanno scoperto che la cifra reale era di 1.100 – le forze armate Usa avevano deliberatamente minimizzato la violenza di un fattore superiore a 10.
Sbarazzarsi di Saddam Hussein non sarebbe stato il problema principale dell’invasione di Usa e Gran Bretagna, quattro anni fa. Il suo esercito si sarebbe disintegrato, come aveva fatto nel 1991, quando venne cacciato dal Kuwait, perché gli iracheni semplicemente non avrebbero combattuto per lui. Ma l’esito dell’invasione del 2003 è stato prevedibilmente diverso dalla guerra del 1991, e non solo perché adesso c’è un grosso esercito americano nel cuore del Medio Oriente, che destabilizza l’intera regione. Sedici anni fa, le forze Usa non avevano continuato la loro marcia su Baghdad, in parte perché Washington non voleva vedere Saddam sostituito da partiti religiosi sciiti probabilmente che legati all’Iran. Questo è esattamente ciò che è successo ora, perché il 60 per cento della popolazione irachena è sciita.
Meno prevedibile era il disastro che si sono trovati ad affrontare gli iracheni qualunque. La maggior parte volevano liberarsi di Saddam Hussein perché si aspettavano una vita migliore dopo la sua caduta. Dato che avevano riserve petrolifere paragonabili a quelle dell’Arabia Saudita e del Kuwait, pensavano gli iracheni, perché non potevano avere uno standard di vita equivalente a quello dei sauditi e dei kuwaitiani?
In realtà, quasi ogni aspetto della vita quotidiana in Iraq è peggiorato negli ultimi quattro anni. Nel maggio 2003, a Baghdad la gente aveva dalle 16 alle 24 ore al giorno di elettricità. Oggi la cifra ufficiale è di sole 6 ore al giorno – e anche questo nell’ipotesi ottimista. In una città con uno dei climi più caldi al mondo, è catastrofico quando i frigoriferi, i congelatori o i condizionatori non possono essere utilizzati.
Ci sono 4,8 milioni di bambini iracheni sotto i cinque anni, che hanno vissuto la maggior parte della loro vita dopo la caduta di Saddam Hussein. I dati dell’Unicef mostrano che il 20 per cento di loro è così gravemente malnutrito che soffre di un arresto della crescita.
Sotto Saddam Hussein, la maggior parte degli iracheni lavorava per lo Stato. Questo funzionava bene finché ha avuto i proventi del petrolio per pagarli, ma dopo il 1990, le sanzioni dell’Onu hanno significato l’impoverimento totale di milioni di persone che avevano goduto di uno standard di vita medio borghese, e quattro anni fa più della metà degli iracheni erano disoccupati. Uno dei peggiori scandali dell’occupazione è che lo sono tuttora – malgrado siano stati spesi miliardi di dollari, miliardi sono stati rubati.
Nonostante tutti i soldi che si presumeva venissero spesi per sviluppare l’economia, a Baghdad non si vedevano gru, tranne un gruppo nella Green Zone, al lavoro per una immensa nuova ambasciata americana.
Ma qualunque siano le difficoltà materiali della vita, per gli iracheni, negli ultimi quattro anni, è la mancanza di sicurezza che ha dominato su tutto il resto. A fine 2003, potevo già vedere le madri diventare isteriche in una scuola nei pressi del mio hotel a Baghdad, perché se non riuscivano a trovare i loro figli temevano immediatamente che fossero stati rapiti.
Dal 2003, la vita in Iraq è diventata satura di violenza. Molti iracheni adesso hanno due gruppi di documenti, per passare attraverso le zone sunnite e quelle sciite, ma spesso non è sufficiente. L’Onu, utilizzando cifre dell’obitorio di Baghdad e del Ministero della Sanità, dice che in Iraq sono stati uccisi 3.462 civili in novembre, e 2.914 in dicembre. Molti sono morti per mano degli squadroni della morte, presi per strada o catturati ai checkpoint.
I rinforzi di truppe Usa a Baghdad, il famoso “balzo”, dovrebbero avere qualche effetto sulle cifre delle perdite. Ma si tratta essenzialmente di un cambiamento di tattica che passa per un cambiamento di strategia. A Baghdad ci sono sempre meno distretti misti, sunniti e sciiti. Le milizie sciite e gli insorti sunniti non sono scomparsi, ma stanno aspettando il momento opportuno per tornare.
A Baghdad la gente era solita dire che sotto Saddam Hussein la vita era abbastanza sicura se ci si teneva lontani dalla politica. Per quanto riguarda la criminalità: durante la guerra del 1991, una volta sono rimasto bloccato in mezzo al semi-deserto tra Baghdad e Mosul, quando la mia auto si è fermata, perché la benzina nel serbatoio era stata diluita con acqua. Sono riuscito a continuare il viaggio fino a Mosul, facendo l’autostop con gli agricoltori, senza alcun rischio per la mia sicurezza.
Se lo facessi oggi, verrei fermato e probabilmente assassinato a uno dei checkpoint ufficiali o non ufficiali sulla strada.
(Traduzione di Ornella Sangiovanni)