La strada è la politica

La tregua sul fronte del Libano è stata – come ha scritto martedì Rossana Rossanda – un «primo passo». Un primo passo la cui importanza è accresciuta dalla tendenza al peggioramento della situazione in quell’area. E, ancora, un primo passo da difendere e sostenere perché grandi sono i pericoli immediati e perché difficoltà gravi si presenteranno in futuro a ogni pie’ sospinto.
L’ultima offensiva di Israele è stata – a mio avviso e non solo – una sconfitta militare e un disastro politico e grande è la responsabilità di Tel Aviv per le minacce che oscurano il presente. Mai gli hezbollah hanno avuto tanta popolarità non soltanto in Libano ma in tutto il mondo arabo; una popolarità che suscita anche pulsioni all’eliminazione dello stato di Israele – una deriva che il mondo civile non può accettare, anche se costretto a guerre sanguinose. In questo orizzonte le posizioni di Siria e Iran non possono non allarmare. E’ un quadro in cui la minaccia di una rottura della tregua è fortissima, ed è chiaro che dopo ci sarebbe solo una guerra senza fine. Unilateralismo e guerra preventiva non sono più praticabili, se mai lo sono stati.
In questa situazione deve essere chiaro a tutti, compresa Israele, che l’unica via di salvezza dall’inferno che ci minaccia è quella della trattativa e della testarda ricerca della pace. Bisogna che tutti i soggetti in campo, e l’Europa in primo luogo, intervengano con paziente e tenace volontà di pace e pongano al primo posto i diritti del martirizzato popolo palestinese ad avere una sua patria, perché questo è il problema di fondo che sta alla radice di tutti i conflitti mediorientali.
I primi problemi pratici da affrontare sono quelli delle cosiddette «regole di ingaggio» della missione militare Onu, regole da cui i francesi (che della missione avranno molto probabilmente il comando) escludono il disarmo degli hezbollah. I francesi si rendono conto che con gli hezbollah bisogna trattare, cercare una soluzione all’interno delle coordinate dello stato libanese. Chiedere e cercar di imporre dall’esterno il loro disarmo sarebbe solo una provocazione, anche nei confronti di larghe parti del mondo arabo. E però il pericolo di andare su questa strada è forte: «Se gli hezbollah non consegneranno le armi, la guerra rischia molto presto di ricominciare» ha affermato una fonte militare israeliana alle agenzie. Un’affermazione del genere esprime un desiderio di rivincita ed è esattamente il contrario di quel che ci vuole per la pace. Così come è chiaro, evidentemente, che anche gli hezbollah devono smetterla con i loro razzi sulle città israeliane.
Afghanistan, Iraq, Libano, Israele, Iran sono la prova del fallimento delle politiche di guerra, preventive e non. L’incendio si può allargare e minacciare tutti, ma già ci minaccia. C’è stato un primo passo, ma esso va fortemente sostenuto con le armi della politica e con la forza della cultura. Il nostro Occidente deve saper fronteggiare con la politica l’incendio che sta davanti a tutti, se non vuole andare incontro a qualcosa di peggio delle due guerre mondiali che già pesano sul nostro passato.
Da ieri 15.000 uomini dell’esercito libanese hanno incominciato a dislocarsi a sud del fiume Litani, mentre i soldati di Israele sembrano aver accelerato il loro ritiro almeno da alcune posizioni che avevano occupato in Libano. Sono buone notizie. Speriamo.