Scrivendo questo libro “Il tenente Alvaro, la Volante Rossa”, edizioni Derive Approdi, pag. 219, l’autore, Massimo Recchioni, ha compiuto un buon lavoro che aggiunge un tassello alla difficile opera di salvataggio della memoria storica e restituisce una giusta dignità a dei comunisti ingiustamente diffamati e criminalizzati.
Sulla Volante rossa sono stati scritti altri libri, forse troppi, ma con intenti diversi rispetto a quelli di Massimo con lo scopo di presentarla come una scheggia impazzita di provocatori estranei e nemici del PCI. Il che non sorprende. E’ dagli anni 50 che con il pretesto della lotta contro l’estremismo e il settarismo della componente operaista, la destra “istituzionale” e “ migliorista” ha iniziato e completato il suo capolavoro. Con i suoi parlamentari (praticamente nominati a vita) e i burocrati dell’apparato ha assunto la direzione del PCI e iniziata la lunga deriva a destra fino agli esiti letali della Bolognina.
I risultati del disastro sono noti anche su scala continentale: dopo decenni di revisionismo storico anche il Parlamento europeo ha sanzionato l’equivalenza, tra il comunismo il nazismo ed è l’Italia, dopo i paesi baltici, il luogo dove questa equivalenza ha raggiunto l’apice della sua potenza distruttiva. Alcuni autori ex comunisti hanno ripulito il loro curriculum con stile “british”, moderato ed elegante nella forma, micidiale nella sostanza. Tra questi Miriam Mafai, che già 25 anni fa ci ha proposto un suo libro su P.Secchia, “L’uomo che sognava la lotta armata” lasciando intendere già nel titolo che poteva essere lui l’ispiratore delle BR e sorvolando maliziosamente sul fatto che Secchia la lotta armata non l’ha sognata ma l’ha fatta e vinta, quando era il momento, mentre l’ha criticata e condannata, da consumato leninista, quando è stato necessario.
Altri autori, come Gianpaolo Pansa, più in sintonia coi tempi (e con gli assegni ricevuti dai committenti) scrivono le loro storie in forma più truculenta e sanguinosa, modello “Libro nero del comunismo” per intenderci.
In un tale contesto di letteratura “noir” anche storie marginali come quella della Volante rossa sono servite a manipolare, rovesciare e riciclare, come prova a carico, l’accusa che il vecchio PCI è stato un partito talmente spregiudicato che ha tollerato, coccolato e difeso la presenza al suo interno di autentici criminali. E in molti hanno continuato a guardare agli episodi di cosiddetta “violenza rossa” come si guarda al dito senza vedere la luna, ossia separando i fatti dal loro contesto storico.
Il libro di Recchioni si muove invece, come è lecito aspettarsi da un comunista, nella direzione esattamente opposta. Raccontandoci la storia di Giulio Paggio, alias tenente Alvaro, suo nome di battaglia, ha saputo risollevare, dal fondo della discarica nella quale era stato sepolto, un episodio importante del movimento operaio milanese e della Resistenza riabilitandolo dalla sepoltura diffamatoria di cui sono stati complici anche molti ex comunisti, prima rinnovatori, poi miglioristi, infine voltagabbana.
Questo libro racconta, in controtendenza, la storia vera di un gruppo di giovani partigiani, senza sconti compiacenti verso gli errori politici compiuti dai protagonisti, ma allo scopo di restituire a quei ragazzi, che hanno combattuto la resistenza nella loro città e nelle Brigate Garibaldi, la dignità politica e ideale che si meritano. Chi vuole riscoprire la carica e i valori ideali che hanno sorretto la vita molto dura e difficile di Giulio Paggio, Paolo Finardi e altri loro compagni esuli in Cecoslovacchia non ha che da leggere le testimonianze e le documentate ricostruzioni raccontate in questo libro.
Dopo 6 decenni che ci separano da quelle vicende altre ricerche storiche, ben più serie e documentate, ci squadernano in modo più convincente il contesto politico dentro il quale quel gruppo di giovani operai resistenti ha potuto costituirsi e compiere anche scelte sbagliate ed errori, poi riconosciuti, e pagati a caro prezzo. Ma senza essere stati mai abbandonati dal partito di cui erano riconosciuti militanti.
La Volante rossa è stata giustamente e aspramente criticata per sue certe stravaganti utopie circa possibili sbocchi rivoluzionari a guerra finita, sbocchi praticamente impossibili dopo Yalta e i conseguenti rapporti di forza esistenti all’epoca tra il movimento operaio situato al di quà dell’Elba (o della cosiddetta cortina di ferro), soverchiati come eravamo da un capitalismo molto forte e tenuti sotto tiro dal potente apparato politico militare dell’imperialismo anglo americano.
Tuttavia, nel 1945, con il passaggio repentino dalla guerra alla pace e di fronte alle soluzioni gattopardesche con cui furono ripristinati i posti di comando istituzionali e socioeconomici imposte dagli occupanti anglo americani, rese il tutto molto difficile da spiegare, soprattutto ai giovani che vedevano svanire speranze e illusioni rivoluzionarie coltivate col fucile in mano e in piena libertà durante la lotta partigiana. E’ vero, il 25 aprile la Resistenza ha vinto, gli spari sono cessati ma erano ancora tanti i rumors che nel 1945 segnalavano un possibile colpo di coda dei fascisti. E in molti si chiedevano perché disarmare.
Era perciò poco plausibile che il passaggio dalla guerra alla pace potesse convincere tutti e subito. Ancora più difficile accettare il disarmo immediato e totale dei partigiani. Lo stesso compagno Vaia, nel suo libro “Da galeotto a generale”, scrive quanta resistenza incontrasse tra gli operai la consegna delle armi intimata dagli alleati entro il 14 maggio 45. La domanda che molti si ponevano in quei giorni, guardandosi in giro, era se il fascismo fosse veramente scomparso il giorno dopo il 25 aprile. E la risposta era tutt’altro che scontata. Ed è su questo tema che si crea un corto circuito tra il gruppo dirigente del PCI, politicamente sperimentato e abituato da anni alle svolte politiche improvvise richieste dalla realpolitik, e gruppi di giovani cresciuti nel fuoco della lotta armata ma pressoché digiuni di formazione politica e impreparati a svolgere i compiti nuovi richiesti dalla lotta di classe nelle fabbriche e nelle campagne entro il quadro democratico della Costituzione repubblicana. Un quadro complicato. Contraddizioni non facili da ricomporre che hanno interessato tutto il movimento partigiano a nord della linea gotica e non solo la Volante rossa.
I massacri, le torture, il terrore, il faccia faccia continuo con la morte vissuto fino al giorno prima e l’attitudine a schiacciare il grilletto contro un nemico feroce che ha seminato il terrore tra la tua gente non svanisce di colpo come l’uragano. Anche se all’alba del giorno dopo rispunta il sole della pace e le farfalle ricominciano a volare la carica di odio che hai accumulato contro il nemico è difficile da smaltire e si stempera molto lentamente. Rimani vigilante, ti guardi in giro, e ti riesce difficile staccare il dito dal grilletto se ti accorgi che molti dei carnefici fascisti sono ancora in circolazione, rimangono impuniti o addirittura ricollocati in certi posti di comando, ben protetti dagli anglo americani. E osservi sbigottito la volontaria negligenza e la ostentata clemenza con cui i tribunali occidentali (sopratutto in Germania) assolvono in modo scandaloso i criminali di guerra e si accaniscono invece contro i partigiani. E’ comprensibile che in un simile contesto lo stato d’animo diffuso che prevale – anche se politicamente scorretto – è la voglia di rendere giustizia ai compagni caduti in battaglia o massacrati dalle belve che hai appena vinto. Non importa con quali mezzi.
In Italia le cose sono andate anche peggio, anche se i dettagli di come Washington e Londra salvarono e arruolarono nei loro servizi Nato i peggiori criminali di guerra fascisti di Salò è stato documentato solo recentemente da valenti storici.
Daniele Ganser storico svizzero, nel suo libro “Gli eserciti segreti della Nato”, Fazi editore, pag. 448, documenta come si sono formati nel dopoguerra gli eserciti segreti della Nato in Europa scrive che in Italia: “Una seria epurazione non si fece mai e ciò permise a molti esponenti della burocrazia fascista (inclusa quella di Salò) di rimanere al loro posto. De Gasperi, insieme al suo ministro Scelba sovrintese personalmente al reintegro del personale seriamente compromesso col regime fascista.”
E’ sempre Daniele Ganser che racconta come il principe Valerio Borghese, soprannominato il “principe nero” fu tra i fascisti più spietati reclutati dagli anglo americani. In qualità di comandante di una sanguinosa campagna contro i partigiani ordinata da Mussolini, Borghese e la sua X mas si era specializzato nella cattura e nella liquidazione di centinaia di comunisti italiani. Alla fine della guerra Borghese fu catturato dai partigiani che lo avrebbero impiccato se, il 25 aprile, l’ammiraglio Ellery Stone, proconsole americano dell’Italia occupata, non avesse dato ordine a James Angleton, agente dell’OSS e più tardi dirigente della CIA, di salvarlo. E cosi fu. Indossata una divisa americana, Borghese venne sottratto ai partigiani, accompagnato a Roma e assolto da tutti i crimini di guerra. E cosi ha potuto continuare la sua attività di fascista golpista fino al giorno della morte in un comodo letto, ospite gradito della Spagna di Franco.
Il suo liberatore e protettore Angleton divenne capo del controspionaggio e una figura chiave del reclutamento di tutti i gruppi politici e paramilitari neofascisti nell’Italia del dopoguerra, inclusi quelle elencati nella lista di oltre 700 criminali di guerra italiani la cui consegna fu richiesta da Tito agli anglo americani. Criminali che anziché finire davanti a un tribunale Jugoslavo per rispondere dei loro crimini (incluso lo sterminio di 600 mila serbi nel campo di Jasenovak), furono tutti arruolati con lauti stipendi nella Gladio. Scrive ancora Ganser: “Con un evoluzione tipica del combattente della guerra fredda, per Jim Angleton era soltanto cambiato il nemico: la falce e martello aveva preso il posto della croce uncinata. Ma per Borghese il nemico era invece stato sempre lo stesso”.
Insomma i dettagli della futura operazione Gladio ci erano allora sconosciuti ma il clima di feroce repressione anticomunista e il pericolo di una rinascita del fascismo coperto dalla DC di Scelba e De Gasperi e integrato militarmente nella Nato, lo stavamo vivendo sulla nostra pelle.
Questo, per intenderci, era il contesto nel quale proliferarono gli episodi cosiddetti di “violenza partigiana” simili a quelli della Volante rossa: dalle foibe carsiche al cosiddetto triangolo della morte in Emilia, dall’occupazione della prefettura di Milano, all’assalto della Motta e al disarmo dei poliziotti che la presidiavano. E ancora una lunga serie di episodi analoghi di tipo insurrezionale a Genova, sul monte Amiata, a Livorno nei giorni dell’attentato a Togliatti, nel luglio 1948, costati ergastoli comminati contro i partigiani dagli stessi giudici estremamente clementi con i gaglioffi di Salò. Secchia ci racconterà più tardi quanta fatica sia costata a lui e a Longo convincere i compagni, in un simile clima, e riportare il partito entro la linea di transizione democratica decisa al V congresso di Milano.
Non posso concludere la lettura di questo libro senza rivolgere un ultimo pensiero al mio coetaneo e compagno di lotta “tenente Alvaro” spentosi nel novembre 2008 in quel di Praga, la sua seconda patria. L’affettuoso, reciproco rispetto che ci ha sempre idealmente unito durante i lunghi mesi della guerra partigiana non è mai venuto meno. Dopo la liberazione abbiamo discusso, litigato e ci siamo ferocemente criticati. Ma ci siamo sempre profondamente stimati anche nel triste giorno che lo accompagnai, per un silenzioso pezzo di strada, nel viaggio verso l’esilio per sottrarlo all’ergastolo inflittogli dal tribunale di Venezia.
Da quel lontano giorno, eccetto un fugace incontro alla stazione di Praga del 1951 mentre andavo a Berlino, ci siamo risentiti al telefono mezzo secolo dopo, nel 2006. Abbiamo chiuso la conversazione augurandoci di poterci rivedere ancora una volta. Sempre a Praga, ovviamente. Una città bellissima che mi è rimasta nel cuore insieme ai tanti ricordi internazionali di giovane comunista. Avrei voluto ammirare ancora una volta, insieme a Giulio, la sua splendida architettura gotica, il Castello, la Moldava, il ponte di Carlo V, la casa di Smetana. E per ascoltare insieme la musica immortale di Ma Vlast, La mia Patria. Non ce l’abbiamo fatta. Ha voluto andarsene lasciando in tutti noi un profondo rimpianto e prima di poter leggere il libro che gli restituisce l’onore di comunista e di partigiano.