La spilla e la bolla

Oltre che impero economico-militare, gli Stati uniti sono anche l’impero dei debiti. Sono il paese con il maggiore indebitamento con l’estero e con il più grande debito pubblico. E sono anche il paese con il maggior disavanzo commerciale: 380 miliardi di dollari nel 2000, una cifra enorme confrontata con gli incassi di tutti i paesi Opec che dall’export di oro nero hanno incassato poco più di 200 miliardi di dollari.
Anche le famiglie americane sono nel Guinness dei debiti: secondo gli ultimi dati della Fed (www.federalreserve.org) nell’ultimo trimestre hanno speso oltre il 14% del loro reddito disponibile per pagare i debiti contratti per acquistare beni di consumo (7,72%) e case (6,36%). Di più: per seguitare a consumare, le famiglie Usa negli ultimi mesi si sono indebitate: spendono più di quanto guadagnano.
L’impero del debito ha avuto gambe solide fino a quando la situazione economica era eccellente. Una delle gambe più solide dell’impero del debito era la borsa, che per anni ha vissuto una nuova corsa all’oro. Il paese cresceva, i capitali accorrevano, le quotazoni azionarie si gonfiavano, la new economy illudeva. E dalla borsa arrivava una pioggia di capital gain che trascinava nuovi consumi con tutto quel che ne consegue.
Poi succede che la ruota comincia a girare più lentamente. D’altra parte può un paese fortemente industrializzto crescere a tassi del 6-8% all’infinito? E ancora: l’occupazione, pure molto flessibile, cresce tirando un po’ i salari, anche se la distribuzione del reddito mostra un peggiormento. Certo, l’innovazione dà una mano alla competitività, ma il superdollaro frena l’export e favorisce l’import. Nove mesi fa l’economia cominciava a battere i primi colpi a vuoto, i profitti cominciano a diminuire, gli investimenti si bloccano e la capacità produttiva (lo dice anche Greenspan) comincia a risultare eccessiva. Un po’ per volta le prospettive (e le aspettative) cominciano a essere meno rosee e comincia a scendere la fiducia delle famiglie. E minor fiducia, significa minori consumi.
La new economy non è una “bufala”, ma visti i valori raggiunti in borsa si è tramutata in una vera truffa: quando l’ottimismo e il Pil all’8% ottenebravano i risparmiatori (con la complicità dei signori del denaro e gli analisti spesso legati alle società) la bolla si è gonfiata senza che nessuno cercasse di sgonfiarla. Neppure Greenspan che più volte si era limitato a dichiarare: i valori attuali delle quotazioni appaiono un po’ eccessivi, però sapremo se è stata una bolla solo quando la bolla esploderà. E alla fine la bolla è esplosa. Non è stato come nell’87 quando in un solo giorno di ottobre il Dow Jones crollò del 22%, prima che Greenspan annunciasse che la Fed era pronta a concedere (alle banche) credito illimitato per frenare il tracollo. Questa volta la discesa è stata progressiva, addirittura perfida per chi (ancora scoltando i cattivi consiglieri) ha seguitato a illudersi che la caduta si potesse arrestare in tempi brevi. Alla fine però la perdita del Nasdaq dai massimi storici è stata del 65% e la ricchezza costruita sulla carta ha trascinato nel disastro milioni di persone che grazie a Wall street erano un po’ più ricche e si permetteva di spendere con disinvoltura.
Dopo il Nasdaq è stata la volta del Dow Jones: l’indice dei trenta titoli delle società industriali a magiore capitalizzazione ha retto per alcuni mesi. La sua discesa dai massimi storici è stata più soft nonostante i parametri tradizionali indicassero una forte sopravvalutazione.
Il Dow Jones, proprio perché ha riferimenti nell’economia reale, soffre ancora di più degli umori della congiuntura. Addirittura non riesce più a eccitarsi nemmeno per le notizie della disoccupazione in crescita e dei licenziamenti massicci delle grandi corporation. E’ solo una crisi congiunturale? Affiorano i primi dubbi: molti ora si chiedono se l’attuale crisi non abbia caratteristiche strutturali, di fine di un lungo ciclo di innovazione. Forse non è casuale, come ci spiegato J.Halevi, che visto l’andazzo Bush punti nuovamente sulla ripresa della spesa militare.
Domande a parte (è crisi di sovraproduzione o sottoconsumo?) l’immagine che abbiamo di fronte è quella di un crollo verticale carico di pericoli soprattutto per l’Europa che non potrà non subirne le conseguenza, anche se l’area grazie all’euro appare un po’ più solida che in passato. Ma i pericoli li avvertono anche i risparmiatori che hanno affidato il loro futuro ai fondi pensione (ma nessuno ne parla) o più in generale al risparmio gestito. E situazioni pericolose sono prevedibili anche per il sistema bancario che aveva “furbescamente” alimentato la crescita delle quotazioni azionarie concedendo crediti per l’acquisto di azioni. Il tutto aggravato dalla minaccia giapponese che rischia di destabilizzare gli altri paesi asiatici.
Questo è il mercato capitalistico, sostengono molti. E il mercato non si può “manipolare” (anche la natura non si dovrebbe manipolare, ma gli Ogm prosperano a maggior gloria del profitto) al massimo regolamentare. Ma i regolamenti non bastano anche nei paesi nei quali le Authority (modello Sec o antitrust negli Usa) vigilano con attenzione. Forse, sarebbe il caso di ricominciare a pensare che non è un solo imprenditore (seppure cavaliere e muratore della P2) o anche mille o centomila imprenditori possono portare il benessere, la crescita armoniosa. Un termine tra l’altro contradditorio visto che nel paese più ricco e indebitato del mondo viene pagata con pesanti perdite della qualità della vita. Soprattutto da 23 milioni di americani che vivono in povertà: un numero che cresce sotto i colpi dalle crisi e della riforma fiscale di Bush.
Insomma, occorre ricominciare pensare al ruolo attivo dello stato, al fatto che certe decisioni di investimento non possono essere lasciate ai privati (lo diceva anche Keynes) e che lo stato non può mollare il ruolo fondamentale di redistributore di ricchezza, di garante della qualità della vita e dei diritti sociali. Ma sicuramente non accadrà in campagna elettorale che qualcuno ricominci a riflettere. La corsa alla Confindustria partita a Parma ne è un triste segnale.