La Spd ha un nuovo presidente e volta pagina

La Spd ha un nuovo presidente, Mathias Platzeck: al congresso di Karlsruhe, su 515 votanti, solo due non lo hanno scelto, uno si è astenuto. Il 51enne ministro-presidente del Brandeburgo ha raccolto un fulminante 99,4 per cento di consensi, da fare invidia alla Sed della tramontata Repubblica democratica tedesca, dove Platzeck è nato e si è formato. Il plebiscito, lungi dall’esprimere forza e coesione programmatica, è un ulteriore sintomo della radicale crisi d’identità della Spd. E’ figlio del terrore che la baracca si sgretoli. Tutti zitti, tutti per l’uomo nuovo che viene dall’est, estraneo alle correnti storiche della Spd. Un «pragmatico», questo l’aggettivo ricorrente per definirlo. Con una formazione di ingegnere specializzato in tecnologie informatiche per il monitoraggio dell’igiene ambientale, i primi passi in politica li ha fatti, nell’ultima fase della Rdt, in una iniziativa ambientalista a Potsdam, e tra i verdi dell’est. Si volta pagina. La generazione dei nipoti del patriarca Willy Brandt si è logorata, o non è più a disposizione per la Spd. Dei due suoi ultimi rappresentanti, Gerhard Schröder, si accinge a uscire dalla scena, e Oskar Lafontaine è passato alla concorrente di sinistra Linkspartei.

Con Platzeck, giubila Der Spiegel, la Spd si è scelta un leader «moderno». Nell’accezione neoliberista del settimanale, significa: uno che finalmente getta via la zavorra «ideologica», che guarda senza «pregiudizi» ai problemi. Ed è vero. Platzeck non fa più alcun riferimento alla bussola fondante della socialdemocrazia: il conflitto capitale-lavoro. Conflitto che i socialdemocratici credevano di poter imbragare nella concertazione riformista, ma che pur restava sullo sfondo. Ora scompare alla vista.

La Spd, ha detto Platzeck nel suo discorso di investitura, «è il partito della linke Mitte», qualcosa come «il centro di sinistra» o «il centro che guarda a sinistra» (il termine italiano centro-sinistra, con o senza trattino, non rende la stessa idea). E questa è già una cesura, per un partito abituato a considerarsi di sinistra. Anche se già Schröder, proprio per smarcarsi dalla sua impronta d’origine, ci teneva a presentarsi come «cancelliere del centro».

Cosa sia il «centro che guarda a sinistra», Platzeck cerca di spiegarlo così: «I molti milioni di persone normali». Dove normalità sembra intesa come medietà: né troppo ricchi, né troppo poveri. Un diffuso ceto medio di gente qualunque, dall’operaio al commerciante, dal piccolo imprenditore all’impiegato. E che appunto non si definisce sulla polarità capitale-lavoro.

Platzeck ha poi detto cos’è per lui la sinistra: «E’ spirito critico (traduciamo così Aufklärung, illuminismo, rischiaramento), apertura al mondo, creatività». Caratteristiche certo simpatiche, ma che di nuovo rinunciano a ogni rimando al nocciolo duro del conflitto sociale.

Non poteva mancare un accenno alla giustizia sociale, in frasi del tipo: «La Spd deve restare la forza dinamica, che coniuga crescita economica e giustizia sociale». Ma la giustizia sociale viene subito declinata come «uguaglianza delle opportunità» di inserimento e di ascesa, in una società disuguale. I due terreni in cui la Spd dovrà concentrarsi per realizzarla saranno l’istruzione e la politica per la famiglia.

Coerentemente con questi presupposti, Platzeck ha esortato la Spd a diventare «il partito della cultura e dell’istruzione nel 21esimo secolo». Più scuola per tutti. Così – pensa Platzeck – non si vedranno in Germania le scene di rivolta che arrivano dalle periferie francesi. Questa riduzione alla salvaguardia degli accessi al sistema formativo equivale alla dichiarazione di fallimento di un progetto politico nato 140 anni fa con ben altre ambizioni: socializzare la ricchezza, anche se a piccoli passi, e con questa i diritti di partecipazione.

Dunque con Platzeck, alla chetichella e senza dibattiti programmatici, la Spd entra nella sua era «postsocialdemocratica». Si fa ulivista. Un partito democratico che piacerebbe a Veltroni. Lasciando spazio alla Linkspartei come «partito della rifondazione socialdemocratica».

Ben venga allora la Grande coalizione, la partecipazione al governo con democristiani e socialcristiani, guidato da Angela Merkel. Lunedì i congressi dei tre partiti che la comporranno, Cdu, Csu e Spd, hanno approvato il programma comune, tutto lacrime e sangue: più imposte, soprattutto indirette a carico della `gente comune’; lavoro più flessibile, con la possibilità di licenziare i nuovi assunti nei primi due anni; tagli per disoccupati e pensionati.

Si continua a gonfie vele sulla linea inaugurata da Schröder, che però aveva ancora a che fare con un partito riottoso. Ora ci penseranno i vincoli della Grande coalizione a metterlo definitivamente in riga.