La Sorbonne, il maggio ‘68 e questo marzo 2006

Marzo 2006 come maggio 1968? Naturalmente, no; troppe le differenze, anche se i luoghi, Sorbona e dintorni (e sullo sfondo una ottantina di atenei francesi), e gli attori (studenti, poliziotti, politici, media) sono gli stessi. Non è ora l’immaginazione al potere, non è la rivoluzione culturale, non è la contestazione dell’arte e della morale borghesi, la ratio di questa azione nata ormai da settimane, innescata dal CPE che il governo di destra sta cercando di imporre come “soluzione” alla disoccupazione e alla precarizzazione dei giovani. Proprio la causa scatenante della lotta, che è innanzi tutto una resistenza, fa emergere le differenze con l’ormai mitico maggio ’68. Qui è in questione la possibilità dell’esistenza materiale, innanzi tutto, mentre allora si trattava di un attacco al sapere dominante, ai modi d’essere della cultura borghese, alla compressione repressiva prodotta nel recinto della civiltà capitalistica. Un attacco che nasceva nel suo cuore, tra i figli della sua classe dirigente, tra i futuri membri della stessa. Qualcuno osservò in proposito che una classe scoprì, nello sconcerto, il proprio fallimento storico; a distanza di decenni, e avendo visto come i contestatori sono stati tranquillamente assorbiti e digeriti dal “sistema” (come allora lo si chiamava, marcusianamente) dovremmo parlare di una rivincita della borghesia?
Il Maggio francese, come in generale le lotte studentesche di quel tempo lontanissimo, fu un tentativo, un po’ dissennato e con inutili estremismi (tentati roghi di libri di biblioteche o gesti di vandalismo forse inevitabili, non perciò meno esiziali sul piano politico e deprecabili su quello morale), ma a suo modo generoso e non senza disperati eroismi, di dare fuoco alla prateria. Quel mese fu il tentato assalto al cielo, in chiave più russoiana che marxiana, più anarchica che comunista: un assalto colorato più che sanguinoso. Preparato da un movimento che, dagli Stati Uniti al Giappone, dalla Germania all’Italia, si era fatto vivo fra il ’66 e il ’67, il Maggio nacque a Nanterre, con l’annuncio di una serrata della Facoltà di Lettere, davanti all’attività del movimento del “22 Marzo” diretto dall’anarchico tedesco Daniel Cohn Bendit. Di là il moto si estende, focalizzandosi ben presto in quella università che contende all’Alma Mater, l’Università di Bologna, il titolo di più antico ateneo del mondo, la Sorbona, appunto, che oggi di nuovo è sulle prime pagine dei giornali. Il cortile dell’Università che si dice sia stata fondata da tale Robert de Sorbon, dove si collocano i “nanterrois” cacciati, diviene l’epicentro della lotta, ben presto esasperata dalle condanne della magistratura, dagli attacchi polizieschi, dal disinteresse dei governanti (Pompidou primo ministro mentre il movimento comincia parte per un viaggio in Oriente), dall’ostilità dichiarata dal Partito Comunista diretto dallo stalinista Georges Marchais, mentre i giornali guardano con sarcasmo ai figli dei borghesi che giocano a fare la rivoluzione. Accanto alla Sorbona, il Centro di Censier (Paris III, detta Sorbonne Nouvelle), e tutto intorno il Quartier Latin, diventano i luoghi di un’effervescenza insurrezionale continua, incessante, davanti alla quale la società francese appare sconcertata, stupita, del tutto impreparata. Il cuore di Parigi si copre letteralmente di affiches disegnati, colorati, vivacissimi: è davvero l’immaginazione al potere. I muri parlano, e ci consegnano un modo nuovo di far lotta politica. I cortei cittadini creano un fiume ininterrotto di studenti e professori, che unisce nel movimento anche le scuole superiori, e comincia a raggiungere le fabbriche. Alle parole d’ordine contro “l’uomo a una dimensione”, che dalla Scuola di Francoforte, Horkheimer, Adorno, e soprattutto Marcuse, avevano fatto germogliare nei campus nordamericani, si aggiungono motti anti-imperialistici. La morte di Guevara era avvenuta solo pochi mesi prima, mentre la Cina cominciava a suggestionare con i suoi messaggi un po’ criptici (riletti oggi, inquietanti), una larga fetta dei giovani. Ma soprattutto, è l’entrata in scena dei salariati a provocare l’apertura di un nuovo fronte che preoccupa le autorità e inquieta la pubblica opinione in cerca di rassicurazioni. E la rassicurazione tentata attraverso il silenzio o la disinformazione sistematica dell’Ortf, la radiotelevisione pubblica, non è sufficiente. Lo schierarsi aperto dei sindacati accanto al movimento studentesco, il diffondersi di quella che ormai si chiama “la contestazione” a vasti settori del mondo della cultura, lo scendere in campo diretto ed esplicito di intellettuali prestigiosi, primo fra tutti Jean-Paul Sartre, in un quadro internazionale di lotta – il Vietnam diventa il simbolo della resistenza anti-imperialistica – suscita ansie e paure crescenti. Ma il movimento, senza vere guide, e del tutto distaccato dalle forze politiche di sinistra, non è in grado di crescere, mentre le paure borghesi animano la reazione. Il simbolo è la grande manifestazione di cittadini impauriti e desiderosi del “retour à la normale”, mobilitati direttamente da De Gaulle all’“azione civica” davanti al pericolo di una “dittatura”: è il 30 maggio, e l’indomani 31, mentre decine di manifestazioni filogolliste si tengono nella provincia francese, centinaia di migliaia di parigini lasciano la capitale per il lungo weekend di Pentecoste (in Francia, un rito irrinunciabile). La rivoluzione di maggio è archiviata.

Le scritte sui muri sono entrate nei saggi storici, i manifesti vengono ripubblicati in volumi illustrati ornati di saggi di illustri semiologi, intere carriere accademiche e politiche si creano sulle ceneri della contestazione parigina. Eppure quell’invito a “prendere i sogni per realtà” – come recitava una scritta su un muro della Sorbona – ovvero ad essere realisti, chiedendo l’impossibile – secondo uno degli slogan divenuti una etichetta del ’68 -, restano quali icone di una volontà non morta di cambiare le cose. In tal senso, aveva ragione Le Monde, quando, commentando quegli eventi, ormai conclusi, scriveva «Nulla sarà più come prima». Sul breve periodo certo il Maggio registrò la sconfitta degli studenti, ma tuttavia il fatto principale fu la fine politica tanto di De Gaulle, quanto il preannuncio di quella a più lungo termine di Pompidou. Alla lunga, le “idee di Maggio”, come furono chiamate, rimasero come lievito capace di fermentare nella società non soltanto francese. Ed erano idee che, fin dagli slogan e dai disegni murali di eccezionale efficacia comunicativa – un’efficacia mai più raggiunta da altri moti similari -, rivelava il filo che sempre unisce tutti i sommovimenti rivoluzionari in quel Paese che della Rivoluzione è la grande madre: dal 1789 al 1871, fino, appunto, al 1968. Fino, ora, al 2006. Il resto di questa storia è affidato ai suoi attori. Ai quali non possiamo che ricordare, a mo’ di augurio, il marxiano “Ben scavato, vecchia talpa…! ”.