Nel dichiarare una guerra “senza fine” all’Asse del Male George W. Bush è finito col restare (quasi) solo. La diplomazia americana sembra aver dilapidato in poche settimane il capitale senza precedenti di simpatia e sostegno che aveva raccolto dopo l’11 settembre per una guerra anche dura, guerreggiata e senza quartiere al terrorismo. C’era voluto un po’ perché vecchi alleati e nuovi amici, forse inizialmente frastornati, digerissero la nuova dottrina. Digeritala, gli stanno dicendo tutti no.
Nel viaggio che ha iniziato in Asia, Bush ha dovuto incassare il dissenso di Yunichiro Koizumi, premier di un Giappone che raramente si era differenziato dalla politica estera americana nell’ultimo mezzo secolo. “Non potete mettere la Corea del Nord nello stesso fascio di Irak e Iran, che c’entrano con Al Qaida e i taliban?” aveva anticipato alla vigilia del suo arrivo a Tokyo il generale Nakatani, il capo delle forze armate giapponesi. A Seul lo attende il disagio di Kim Dae Jong, preoccupato che salti il dialogo così faticosamente avviato con Pyongyang. Poi gli sarà ancora più difficile convincere i cinesi quando sbarcherà a Pechino.
In Europa, a prendere nettamente le distanze non sono stati solo governi e leader di sinistra, come il francese Lionel Jospin e il tedesco Helmuth Schroeder, ma anche il premier di destra spagnolo José Maria Aznar. Qui la preoccupazione riguarda quel che si intende fare con l’Irak, e, più ancora, con un Iran che si trova nel bel mezzo di un difficile guado dall’intolleranza e dall’isolamento degli ayatollah a rapporti più costruttivo con l’Occidente. Silvio Berlusconi ha appena assicurato, alla commissioni esteri del Parlamento, che l’Italia intende continuare la «tradizionale» politica del dialogo con l’Iran. Ma il nostro capo del governo, nonché ministro degli Esteri, glie lo dirà anche a Bush? Quello francese, Hubert Védrine gli ha detto chiaro e tondo che la nuova dottrina è «semplicistica» e «assurda». Sulla stessa lunghezza d’onda si erano pronunciati il britannico Jack Straw, lo spagnolo Josep Piqué, la svedese Anna Lindh. Il ministro degli Esteri tedesco, Joschka Fisher, gli aveva ricordato che «i partner di un’alleanza non sono dei satelliti». Il commissario europeo agli Esteri, il britannico Chris Patten, che «i veri amici non sono sicofanti» e che «per quanto siate potenti, anche se siete la maggiore superpotenza al mondo, non potete fare tutto da soli». Solo Tony Blair usa ancora toni più dimessi, benché la stampa lo inviti a parlar chiaro. Ma con l’argomento che sinora Bush l’ha sempre ascoltato e lui è sicuro che continuerà ad ascoltare e consultarsi con gli alleati prima di imbarcarsi in avventure militari.
Eppure, non solo questi tradizionali alleati, ma anche Russia e Cina non avevano obiettato alla guerra in Afghanistan, né a interventi «globali» contro al Qaida e i supporter del terrorismo. La questione non è se Irak, Iran e Corea del Nord siano, e in che misura, «cattivi». Non è, a ben vedere, nemmeno che stiano cercando o meno di acquisire armi di distruzione di massa (nessuno si illude o prende sottogamba il problema, non c’è una capitale europea, o asiatica, che non creda che ne abbiano effettivamente il potenziale). La questione è come impedire che avvenga, o che rappresenti una minaccia per il mondo. C’era, negli anni Sessanta, a Washington e a Mosca, chi suggeriva di fare guerra alla Cina per impedire che Mao si facesse l’atomica. La Cina nel caos della rivoluzione culturale era potenzialmente più «pazza», instabile, ideologicamente aggressiva e pericolosa degli «Stati canaglia» di oggi. Ma nessuno pensa che Richard Nixon, allora splendidamente consigliato da Henry Kissinger, avrebbe fatto meglio a farle la guerra prima che si dotasse di missili in grado di raggiungere gli Stati uniti, anziché andare a Pechino a tendergli la mano.
Chi consiglia ora Bush? Il suo segretario di Stato, Colin Powell, gli consigliava una linea opposta, ma ora si limita alle «interpretazioni», sembra essersi convertito alla nuova dottrina (in fin dei conti serve «a piacere del presidente»). Dick Cheney e Donald Rumsfeld avevano sempre patrocinato la linea dura, dell’America che «fa da sola», ma si dice siano soprattutto interessati alla resa in termini di bilanci militari. Il vecchio Kissinger forse ha avuto un ruolo nella definizione della nuova dottrina teorizzando, come ha fatto recentemente, che «la politica antiterrorismo è vuota se non ha alle spalle la minaccia della forza» e che la «fase 2», post Afghanistan deve saldare i conti con l’Irak, non perché Saddam avesse o meno a che fare con il terrorismo, ma per più solide ragioni geo-politiche. Può essere stato lui a suggerirgli che, pure se c’è il rischio di perdere componenti della coalizione, Europa, Cina e Giappone non avrebbero esercitato «un’opposizione attiva». Ma si riferiva alla resa dei conti con Saddam, forse non immaginava nemmeno quanto si sarebbe allargato il discorso. Un acuto osservatore, Steve Mufson, ha avanzato in un articolo apparso ieri sul Washington Post, l’idea che le convinzioni di Bush siano molto più profonde, risalgano a ben prima dell’11 settembre, a quando passò un weekend a Camp David a leggere Eastward to Tartary, il libro di Robert Caplan sul caos attorno al Caspio, e poi fece convocare l’autore alla Casa Bianca. Kaplan sostiene che è compito della grandi potenze portare ordine, anche con la forza, nel mondo. Come fecero Roma nell’antichità, l’Impero asburgico e quello ottomano nel Balcani, l’Impero britannico nell’Ottocento. Ha appena pubblicato, forse rielaborando quella conversazione alla Casa Bianca, un nuovo libro significativamente intitolato: Warroir Politics, politica del guerriero; sottotitolo: Perché la leadership esige un’etica pagana.