Memoria e ricordo sono ritenuti sinonimi. Possono esserlo ma non necessariamente, se Primo Levi li considerava addirittura di significato opposto. Per lui la memoria coincideva col flusso di chi riceve il passato e, inconsciamente, lo modifica in una totalità fittizia: faceva, non a caso, il nome di Marcel Proust, dove infatti verità e invenzione sono una cosa sola.
Viceversa il ricordo, agli occhi di Levi, nella sua precaria consistenza manteneva rilievo e spessore, come fosse un reperto minerale: insomma il bene del ricordo e la sua sussultante verità per lui coincidevano, paradossalmente, proprio con lo stato di minorità/parzialità. Infatti lo scrittore piemontese associava alla memoria la restituzione del passato in forma di appagamento e quiete contemplativa, mentre al ricordo legava l’impulso a rinnovare la testimonianza, a tradurla in gesti concreti da manifestare al presente.
Leggendarie ossessioni
Uomo pratico e disinteressato alle dispute intellettuali, c’è da giurare che Simon Wiesenthal avrebbe dato torto al luogo comune e ragione a Primo Levi. Il ricordo per Wiesenthal, transitato per una decina di Lager, superstite allo sterminio di sua madre e di ottantotto congiunti, non è tanto il riflesso lancinante del reduce quanto lo spasimo di verità gridato fra gli increduli, insomma un’ossessione cognitiva e operativa che diviene presto leggendaria: dare la caccia ai criminali nazisti, assicurarli alla giustizia e dunque a un processo che Wiesenthal intende contemporaneamente come un atto di pedagogia e un contributo alla storiografia.
I nomi di Eichmann e di Franz Stangl, il boia di Treblinka, sono appena l’incipit di una lista che ne comprende alla fine un buon migliaio: «Quando i tedeschi misero piede per la prima volta nella mia città, in Galizia, metà della popolazione era ebrea: centocinquantamila persone. Quando se ne andarono, ne erano rimasti vivi cinquecento. Uno ogni trecento. Tante volte ho pensato che nella vita tutto ha un prezzo, dunque anche restare vivi ne ha uno. Questo prezzo era, per me, diventare il rappresentante di tutti coloro che erano morti». È una frase che si legge in un volume appassionante, non un libro di storia né una biografia in senso stretto ma qualcosa che incrocia il reportage con un libro-intervista fitto di testimonianze e documenti: lo ha scritto nel ’93, per integrarlo nel 2002, un grande inviato statunitense, Alan Levy, e si intitola appunto Il cacciatore di nazisti. Vita di Simon Wiesenthal (traduzione di Alessio Catania, Mondadori, pp. 447, euro 20).
Da Leopoli a Mauthausen
La falsariga biografica vi è linearmente mantenuta e indugia su antefatti ignoti al grande pubblico: la nascita a Leopoli nella famiglia di un grossista appena scampato ai pogrom zaristi; la successiva fuga a Vienna e gli studi di ingegneria e architettura a Praga, una precoce conoscenza, per motivi professionali (nel ’34-’35), dell’universo sovietico e della dittatura stalinista; quindi i campi di lavoro, l’arresto nel giugno del ’44 da parte della Gestapo e la discesa all’Ade concentrazionario, da Gross Rosen a Buchenwald, con tappe intermedie di milleottocento chilometri, fino a Mauthausen dove viene liberato dagli americani nella primavera del ’45. Lì Wiesenthal somiglia a uno spettro di quaranta chili ma, concordano tutti i testimoni, ha già i tratti del «segugio, esacerbato, spietato, vendicativo». Se infatti gli sono estranee le dispute dottrinarie, della tradizionale etica ebraica mantiene il rigetto del perdono, perché solo la vittima può perdonare; rifiuta la brutalità sommaria della vendetta (Giustizia, non vendetta si intitolerà uno degli ultimi suoi libri) solo in quanto la riporta a un’altra massima tradizionale: non porgere affatto l’altra guancia, ma rendere il colpo.
Individualista per necessità
Wiesenthal non è un individualista per natura come gli hanno sempre imputato i suoi nemici, non escluso da ultimo Elie Wiesel, peraltro geloso del suo carisma; egli è invece un individualista per necessità. Diffida da subito dei servizi segreti alleati, o ex alleati, in quanto vede da parte loro, all’inizio della guerra fredda, una duplice e complementare necessità di smaltimento del dolore e di pratica dell’ oblìo.
Né deve stupire che proclamandosi da sempre cittadino austriaco tout court non voglia mai trasferirsi in Israele: la sua stessa collaborazione col Mossad, nient’affatto sistematica, appare nel complesso sopravvalutata, se ad esempio il capo del commando israeliano che sequestra Eichmann a Buenos Aires per processarlo a Gerusalemme, vale a dire Isser Harel, nel successivo memoriale La casa di via Garibaldi (Mondadori, 1976) non lo cita neanche una volta. (Del resto, la letteratura che gli è stata dedicata in genere ne fa un uomo solo e racchiuso nella propria ossessione, un eroe sostanzialmente isolato: basti pensare al modo in cui traspare nel classico Dossier Odessa di Frederick Forsyth o, per altra via, nei Ragazzi venuti dal Brasile di Ira Levin).
Wiesenthal diffida dei modi e dei tempi di qualsiasi politica, teme i cadenzati opportunismi, le dilazioni e i compromessi. Tenace, laborioso, infinitamente orgoglioso e letteralmente incapace di ammettere il minimo errore, la sua metafisica si riduce a pochi elementi essenziali: mantenere libere le mani, non pregiudicare i criminali ma sempre consegnarli alla giustizia, essere persuasi del fatto che quanto di mostruoso è accaduto, proprio perché è già potuto accadere, può accadere di nuovo (un pensiero, quest’ultimo, che Primo Levi avrebbe senz’altro sottoscritto). Non gli interessa, anzi è da ritenere sia per lui uno stimolo ulteriore, il fatto che Nietzsche abbia visto nel risentimento quasi il sigillo della «lingua degli schiavi»: tant’è, il famoso Centro di documentazione storica ebraica, fondato nel ’47, prima di passare a Vienna ha sede nientemeno a Linz, la città elettiva di Hitler e di Eichmann, poi rifugio e punto di partenza verso l’America del sud pressoché di tutta quanta la feccia nazista. Wiesenthal provoca i suoi fuggiaschi al solo fine di stanarli: non solo Eichmann (pescato dopo quindici anni di lavoro, come avrebbe finalmente annunciato, dall’Argentina, il più celebre messaggio in codice del secolo: Ha’ish hou ha’ish, «L’uomo è l’uomo») ma gli aguzzini d’un’affollatissima seconda fila, compresi i volonterosi coadiutori, i vili tiepidi: è il caso di Kurt Waldheim, segretario generale dell’Onu e poi presidente della Repubblica austriaca, che volle smemorarsi dei massacri cui assistette in Jugoslavia nonché della deportazione degli ebrei di Salonicco, dove si trovava da giovane ufficiale dell’esercito tedesco; ma è anche, e forse soprattutto, il caso di Bruno Kreisky, il cancelliere austriaco che arrivò a rinnegare in pubblico il proprio ebraismo nel momento in cui accettava, lui socialista, una quota scandalosa di ex nazisti nel proprio governo.
È vero che alla lista di Simon si sottrae a vita il dottor Mengele, lo pseudoscienziato che ad Auschwitz infieriva su cavie umane; ma qui l’ossessione del cacciatore giunge a intralciare e involontariamente a depistare il lavoro investigativo: senza che nessuno lo sappia o comunque lo dica, Mengele è morto da quattro anni in Brasile e Wiesenthal continua ad agitarne lo spettro sui giornali di mezzo mondo; si tratta del suo più grave errore, ma quella stessa caccia implacabile dice che il suo è stato un errore per eccesso, non certo per difetto. Il libro di Alan Levy documenta tutto questo con precisione e chiarezza espositiva ma tuttavia è impossibile non muovergli almeno due seri appunti.
Reticenze e omissioni
Da un lato, si rileva la scarsa trattazione delle idee politiche di Wiesenthal, forse per la reticenza, al riguardo, dello stesso intervistato, un sionista conservatore, fiero anticomunista, amico personale di Begin e Shamir, avvocato della causa redentiva dei Rom (motivo ufficiale della rottura con Wiesel) e però del tutto sordo alla tragedia dei palestinesi; dall’altro l’omissione, abbastanza incomprensibile da parte di Levy, di uno straordinario lascito testimoniale e letterario che annovera, fra gli altri, titoli quali Gli assassini sono tra noi (Garzanti 1967, colpevolmente mai più riproposto), Il girasole (ivi 1970), il già citato Giustizia, non vendetta (Mondadori, 1989) e, più travolgente di un romanzo, Max e Helen (Garzanti, 1996), dove si racconta, con la delicatezza che mai si associerebbe al più tremendo dei cacciatori, come e perché Simon Wiesenthal abbia fatto una volta eccezione, decidendo di lasciare in libertà, dopo averlo individuato, un ex criminale nazista.
Negli ultimi tempi pare ripetesse sempre che l’arte in cui gli uomini più eccellono è quella del dimenticare, ma si teneva fermo al bene del ricordo e spesso gli tornava in mente la sua prima lista, novantuno nomi appena, stilata cinquant’anni prima a Linz. Non ebbe mai il Nobel e in patria non fu più che tollerato. L’ultimo dono da lui ricevuto nella pia e cattolicissima Austria fu quello di un militante del Partito della libertà di Jörg Haider, candidato sindaco in un villaggio della Carinzia, che gli mandò a dire: «Ho fatto sapere a Wiesenthal che stiamo ricostruendo i forni, ma non per lui. Per lui c’è posto nella pipa di Haider».