Gli studenti tornano in piazza per sfidare il governo di Michelle Bachelet e il bilancio della protesta è sorprendentemente duro: ore di guerriglia urbana e oltre 200 arresti, in una giornata tesa che riporta il Cile indietro di anni. La violenza è esplosa nel centro di Santiago e a Copiapò, 800 chilometri a nord della capitale. Entrambe le manifestazioni erano iniziate pacificamente, con gli studenti decisi a rilanciare le richieste che a maggio avevano portato a tre settimane di paralisi delle scuole medie superiori. Nel centro di Santiago, martedì mattina, circa 2.000 ragazzi si sono radunati sull’ Alameda, il viale principale della città. Esibivano striscioni e gridavano slogan, sollecitando il governo a mantenere gli impegni presi sulla riforma della scuola. Poi un gruppo di ragazzi ha cercato di superare un blocco per avvicinarsi al palazzo presidenziale della Moneda, sono volate pietre e bulloni e i Carabineros hanno reagito con idranti e lacrimogeni. Gli arresti sono stati 77 solo in questa zona della capitale, ma la reazione delle forze dell’ ordine è stata energica anche in altri quartieri, oltre che a Temuco e soprattutto Copiapò, con 98 fermi. La sfida degli studenti cileni è iniziata poco dopo l’ insediamento di Michelle Bachelet alla presidenza. Nel mirino il sistema creato negli anni della dittatura, e mai riformato, fortemente sbilanciato a favore della scuola privata e penalizzante per gli studenti più poveri. Tra le richieste più urgenti, il movimento delle scuole chiedeva la gratuità dell’ esame di ammissione all’ università e il rilascio di pass nel trasporto pubblico. Dopo tre settimane di proteste, all’ inizio di giugno il governo riesce ad attenuare le tensioni, creando una commissione aperta ai rappresentanti degli studenti, per analizzare i problemi e presentare proposte. La Bachelet silura anche il ministro dell’ Educazione, Martin Zilic, sostituendolo con una donna, Yasna Provoste. Infine, questa settimana, sono riprese le ostilità, con l’ ala più radicale del movimento che denuncia i ritardi nel lavoro della commissione mista, la quale – dicono – non avrebbe alcuna intenzione di riformare il sistema. «Sono scelte molto profonde, capisco l’ impazienza degli studenti, ma non possiamo improvvisare una riforma in poche settimane», si è giustificata ieri Michelle Bachelet. La protesta ha già avuto un riflesso negli indici di popolarità della leader socialista, al punto da scatenare addirittura un dibattito all’ interno della maggioranza su quale partito dovrà esprimere il prossimo candidato presidenziale, nel 2009. La «presidenta» mantiene i suoi consensi al 57 per cento, ma è in calo di otto punti rispetto ad una rilevazione di maggio. Gli scontenti sono saliti invece dal 22 al 33 per cento. Il Cile vive il paradosso di una crescita economica ancora molto sostenuta (il secondo trimestre registra un altro +4,5 per cento), che sta ampliando le rivendicazioni di quanti – dopo anni e anni di boom – non ne colgono i frutti. Il caso più emblematico è quello dei minatori. Da settimane la protesta al giacimento di Escondida, il più grande del mondo, si sta ripercuotendo sui mercati internazionali del rame, la principale ricchezza del Cile. I duemila operai, dipendenti della multinazionale che controlla la miniera, hanno gradualmente ridotto la produzione. Chiedono aumenti salariali consistenti, ritenendo di aver diritto a partecipare all’ enorme incremento degli utili aziendali e delle royalties governative, entrambi effetto del prezzo del metallo, che si è quadruplicato in tre anni. La battaglia di Escondida sembra lontana da una soluzione e il governo, per ora, si mantiene defilato sostenendo che si tratta di una negoziazione tra le parti. Ma l’ irruzione sulla scena del maggior sindacato cileno, la Cut, potrebbe politicizzare il caso. La centrale sindacale ha promesso ai minatori un appoggio finanziario per continuare la protesta e vorrebbe spingersi oltre, fino a costringere il governo Bachelet a rimettere in discussione le privatizzazioni nel settore minerario effettuate negli anni di Pinochet. Un tabù, nei quindici anni di moderazione dei governi di centrosinistra succeduti alla dittatura.