«Infondate e irresponsabili»: così il governo di Damasco ha definito le parole del ministro della Difesa americano Rumsfeld, respingendo seccamente l’accusa di consentire attraverso il suo territorio la fornitura di armi e apparecchiature militari all’Iraq. E una parallela smentita è venuta anche da Baghdad, il cui ministro dell’Informazione Said al Sahaf, in una intervista a una televisione di Beirut, ha negato che il suo Paese riceva armi e materiale bellico dalla Siria. In verità la smentite non sarebbero nemmeno necessarie, tanto è evidente il carattere pretestuoso e strumentale delle accuse di Rumsfeld; non a caso il “falco” dell’amministrazione Usa aveva contemporaneamente ammonito l’Iran a «non interferire» nella guerra in Iraq inviando oltre confine gli oppositori sciiti in armi delle “Brigate Badr”.
Siria e Iran, come si sa, figurano tra i prossimi possibili obiettivi della “guerra infinita” di Bush, e le accuse di Rumsfeld – nel momento in cui la guerra non sta affatto andando come vorrebbero Bush e i suoi collaboratori – assumono chiaramente il carattere di un monito preventivo e al tempo stesso di un diversivo. E in questo senso vengono esplicitamente interpretate da Damasco. Una nota del ministero degli Esteri siriano dichiara infatti che Rumsfeld sta soltanto cercando di distrarre l’attenzione internazionale dai “crimini di guerra” che le forze anglo-americane stanno commettendo in Iraq. Le forze d’invasione – si legge nella nota «stanno commettendo orrendi crimini contro civili inermi in Iraq, centinaia di bambini e donne stanno morendo e le case vengono distrutte. Dopo il fallimento delle aspettative (americane) su una vittoria rapida e pulita – prosegue il documento di Damasco – Rumsfeld sta tentando di giustificare il fallimento delle sue forze… accusando altri di contrabbandare armi in direzione dell’Iraq». Il governo siriano è comunque ben cosciente della minaccia che si nasconde dietro le parole di Rumsfeld, ma è deciso a non lasciarsi intimidire: «Se gli Stati Uniti intraprenderanno qualche azione contro la Siria noi reagiremo», ha detto l’ambasciatore di Damasco alle Nazioni Unite Mikhail Wehbe.
La Siria ha una posizione molto delicata ma al tempo stesso assai chiara: unico Paese arabo a far parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ha votato a suo tempo la risoluzione n° 1441 sulle ispezioni, nella convinzione che fosse lo strumento per risolvere la crisi con mezzi politici e senza ricorrere all’uso delle armi; ma quando è apparso chiaro che Bush e soci erano comunque decisi a scatenare l’aggressione contro Baghdad, ha preso fermamente posizione contro il conflitto considerandolo ingiusto e illegale.
In questo contesto la Siria ha avuto un ruolo importante sia nell’impedire che nel Consiglio di sicurezza si coagulasse una maggioranza favorevole alla posizione di Bush e Blair, sia nel determinare la presa di posizione collegiale della Lega araba che, con la esplicita condanna della guerra e la richiesta di fine immediata delle ostilità, ha messo in palese imbarazzo (oltre che in contraddizione) quei governi che hanno messo il loro territorio a disposizione delle forze anglo-americane. Non è da stupirsi dunque che l’Amministrazione Usa se la sia legata al dito e cerchi pertanto di mettere Damasco in difficoltà, con insinuazioni e minacce. La posizione siriana sul conflitto è stata del resto ribadita al più alto livello, in una intervista al quotidiano libanese “As Safir” dello stesso presidente Bashar el Assad, il quale ha detto che le forze anglo-americane si stanno scontrando con una “resistenza popolare” che impedirà loro di assumere il controllo del Paese.
Nei giorni scorsi centinaia di migliaia di manifestanti erano scesi in piazza a Damasco e nelle altre città della Siria per manifestare contro la guerra ed esprimere solidarietà con il popolo iracheno; numerosi cittadini iracheni hanno attraversato il territorio siriano (come quello giordano) per tornare volontariamente in patria a combattere; e l’altroieri, nel sermone del venerdì, la più alta autorità religiosa della Siria ha esortato tutti i musulmani alla “guerra santa” contro le forze straniere in Iraq. Le minacce di Rumsfeld sono state insomma rispedite al mittente; Damasco sa comunque di restare “sotto tiro” e non manca di tenerne conto.