La Siria e la politica nel MO: doppio gioco o abile diplomazia nella regione?

Sembrava cosa fatta per Obama ed invece la Siria, lungi dall’essere stata inglobata dagli Usa ed Israele nella nuova politica per il Grande Medio Oriente, strige accordi proprio con il nemico giurato di Tel Aviv, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. Ma facciamo un passo indietro.

A metà febbraio una compagine di diplomatici americani di primissimo livello, con Hillary Clinton in testa, ha compiuto un giro di colloqui a ritmo serrato con le diplomazie di Siria, Qatar ed Arabia Saudita, alla ricerca di alleati nella regione che sfuggissero dall’orbita iraniana. L’obiettivo vero era dunque quello di sfilare la Siria dalla galassia persiano-sciita guidata dall’Iran e rafforzare così, da un lato l’asse arabo-sunnita ma, soprattutto, Israele: potenza nucleare della regione che ha tutto l’interesse ad acuire le divisioni tra sunniti e sciiti e quindi, volgarmente (ed assai impropriamente), tra paesi arabi moderati e non. Questi colloqui avevano portato ad un doppio risultato: la visita a Damasco del sottosegretario di Stato William Burns e del coordinatore del Dipartimento di Stato per l’antiterrorismo Dan Benjamin per affrontare con Bashar al-Asad in persona il dossier scottante del nucleare iraniano. Ma soprattutto è stata formalizzata la nomina di Robert Ford (attuale numero due a Baghdad) a nuovo ambasciatore in Siria. Quest’ultimo è un gesto carico di significato, visto che la sede diplomatica Usa in Siria è rimasta vacante per cinque anni e precisamente da quando Washington aveva ritirato il suo ambasciatore per protesta verso l’assassinio del presidente libanese Hariri su mandato, secondo gli Usa, proprio della Siria.

Sembrava quindi che l’operazione di sganciamento della Siria dalla sfera di influenza iraniana fosse avvenuto, quando una doccia fredda colpisce le cancellerie di Tel Aviv e Washington: il presidente siriano Bashar al-Asad ha organizzato, in occasione della vigilia del Natale musulmano, una cena di gala alla presenza del presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, Mahmud Ahmadinejad, e del leader del movimento sciita libanese Hezbollah, Sayyid Hassan Nasrallah. La cena, già di per sé ricca di significato, è il simbolo della diplomazia dispiegata dalla Siria in questa fase ed in questa regione. Pur aprendo le porte del dialogo alle cancellerie occidentali (Usa e Francia, sopra tutte), Damasco sta giocando un’importantissima partita nella regione che la porta ad avere un ruolo di primo piano ed in via di progressivo consolidamento. Già nelle simpatie di tutti i popoli dei vicini paesi arabi per aver accolto nel proprio paese oltre tre milioni di “fratelli” iracheni in fuga dalla guerra, la Siria ha recentemente stretto un accordo con la Turchia (altro paese chiave, in evoluzione dal punto di vista del posizionamento geopolitico nella regione) ed il Libano, per gli spostamenti interni dei rispettivi cittadini. Oggi si può passare tranquillamente, da un Paese all’altro, senza dover richiedere alcun visto.

La presenza di Ahmadinejad in Siria era dovuta proprio alla decisione di liberalizzare i visti anche tra Siria ed Iran. Una sostanziale differenza, quindi, rispetto alle richieste della Clinton di “aumentare le distanze” con la Repubblica Islamica. E proprio su questo punto si sono riversate le ilarità dei due presidenti, con al-Asad che ha rilanciato: «sono sorpreso dalle dichiarazioni di chi ci chiede di distanziarci. Siria e Iran hanno interessi e obiettivi comuni e nessuno ha il diritto di riorganizzare la nostra agenda delle priorità». Altrettanto ricca di significato la presenza di Nasrallah, segretario generale di Hezbollah. Parco nelle apparizioni pubbliche per ovvi motivi di sicurezza, in questa occasione si è invece fatto fotografare ad avvicinare dai giornalisti, sfoggiando il suo consolidato sorriso un po’ sornione ed avvolto come al solito dall’immancabile mantello felpato usato dai mullah iraniani. Sono in tanti, in Siria ed in patria, a vedere in lui il vero leader indiscusso della cena, smentendo così la vulgata secondo la quale il suo movimento di resistenza non sarebbe altro che un distaccamento dell’Iran nel paese dei cedri, una succursale pagata profumatamente nel corso degli anni e che porta l’Iran a “confinare de facto” con l’odiata Israele, o per lo meno a disporre di suoi uomini su quell’importantissimo confine. Effettivamente questa lettura appare particolarmente forzata, ma saranno i fatti a mettere in luce il peso che lo sceicco di Hezbollah avrà in futuro ed il ruolo che andrà ad occupare in caso di un conflitto aperto nella regione.

Quel che invece è importante sottolineare è che la Siria diventa sempre di più un attore regionale del quale, i movimenti di resistenza islamica da un lato (gli sciiti libanesi ed iraniani, ma anche i sunniti palestinesi di Hamas e Jihad) e le potenze occidentali dall’altro, non possono più fare a meno. Una crescita di influenza e di peso che si vede pure nella irrisolta questione palestinese: se un tempo l’Egitto era l’attore indiscusso dell’area, facendosi interprete della vicenda palestinese presso la comunità internazionale, ora è sempre più Damasco ad assurgere a questo ruolo ed a diventare, nei fatti, una delle poche realtà capace di esercitare una pressione reale ed utile sulle varie fazioni palestinesi, per spingerli ad un governo di unità nazionale e ad una ricomposizione tra Fatah ed Hamas (il cui leader dell’ala militare, Khaled Mashaal, ha il suo quartier generale proprio a Damasco). Quel che si profila, quindi, è una fitta rete di rapporti ed equilibri regionali capaci di cambiare gli assetti di potere nella regione, senza dall’altro lato chiudere le porte alla diplomazia europea e statunitense. Un lavoro di indubbia abilità diplomatica che il giovane Bashar al-Asad sta portando avanti con grande abilità, smentendo clamorosamente la tesi di tante cancellerie occidentali che vedevano in lui un buon oftalmologo negato per la politica.