LA SINISTRA RADICALE NELLA MORSA

A desso che le posizioni sono tutte note e gli attori in campo hanno definito e annunciato tattiche e strategie per la guerra in tre tempi attorno al cosiddetto protocollo del Welfare (assemblee nelle fabbriche, referendum e manifestazione della «cosa rossa» il 20 a Roma), è probabile che Fiom e sinistra radicale si stiano chiedendo come è stato possibile ficcarsi in un tale cui de sac. Infatti, in ragione della ferma posizione in difesa degli accordi di luglio assunta da Prodi («Il protocollo è immodificabile») e da decisivi settori della maggioranza (che minacciano la crisi se l’intesa sancita a suo tempo andasse per aria) davvero non si capisce quale dei possibili epiloghi sia più imbarazzante per i leader della sinistra radicale. Il dato emerso con disarmante nettezza è oggi del tutto chiaro: la sorte del protocollo sul Welfare e quella del governo Prodi sono ormai indissolubilmente legate.
Perché ciò sia avvenuto – a parte la rilevanza dell’intesa che sancisce, come è noto, anche il superamento del cosiddetto «scalone» in materia di pensioni – è presto detto: gli accordi di luglio sono diventati una sorta di cartina al tornasole dell’interminabile sfida tra la parte riformista e quella radicale della maggioranza di governo, oltre che il terreno di esercitazione per gruppi e «microrganismi» (dall’Udeur all’Italia dei valori, fino ai liberaldemocratici di Lamberto Dini) insofferenti verso gli attuali equilibri della coalizione e forse verso la coalizione tout-court. È questo irrigidimento delle posizioni che rende assai improbabili modifiche sostanziali al protocollo sul Welfare. Ed è appunto tale dinamica ad avere spinto la sinistra radicale in un vicolo cieco: una strada quasi senza uscita anche nel caso – dai più considerato assai improbabile – di vittoria dei «no» nel referendum operaio voluto dalla Fiom.
È quasi una morsa, infatti, quella nella quale si è lentamente ritrovata stretta la sinistra radicale. Da una parte, l’ipotesi di una sconfitta nelle fabbriche, che toglierebbe qualunque senso alla sua azione in sede di governo e Parlamento (e forse perfino alla manifestazione già indetta per il 20 ottobre) per una modifica dell’intesa di luglio; dall’altra, la quasi certezza che anche una improbabile vittoria dei «no» al protocollo non sortirebbe o quasi effetti sul piano della modifica dEgli accordi sottoscritti tra governo e parti sociali l’estate scorsa: salvo, naturalmente, precipitare l’esecutivo verso una crisi il cui sbocco più probabile appaiono oggi le elezioni e il conseguente (stando ai sondaggi) ritorno del centrodestra al governo.
È in fondo anche per questo che toni e argomenti dei leader della Fiom e della sinistra radicale stanno lentamente cambiando col passar delle ore: per i primi, quel che ora è soprattutto importante «è che i lavoratori vadano a votare, perché la cosa peggiore sarebbe una scarsa partecipazione» (Gianni Rinaldini); i secondi, invece, mettono l’accento sul valore di una «prova di democrazia» e sul fatto che «lavoratori che chiedono un diritto sono i migliori alleati di un governo progressista». Del resto, se su uno dei due piatti della bilancia c’è la concretissima ipotesi di una crisi di governo e di una possibile sconfitta elettorale, la prudenza crescente è comprensibile. Già una volta Rifondazione mandò a gambe all’aria Romano Prodi (1998): ne seguirono una lunga agonia politica e poi cinque anni di governo Berlusconi. Ripercorrere oggi l’identica strada sarebbe incomprensibile: forse e prima di tutto proprio per gli elettori della costruenda «cosa rossa».