Mettere insieme buona parte della sinistra nel mondo arabo non è più facile che da noi. Tante, anzi tantissime le divisioni, a volte anche violente. Una sinistra che nei loro Paesi si interroga sul proprio futuro e prova ad immaginarsi fuori dal gorgo che in questi anni l’ha confinata ad un ruolo subalterno, schiacciata fra un islam politico sempre più aggressivo e un nazionalismo panarabo corrotto e spesso al servizio degli Stati Uniti. Per queste ragioni l’incontro che si è svolto qualche giorno fa a Damasco – il meeting straordinario del Solidnet, dei partiti comunisti e del lavoro, dedicato alla solidarietà verso la questione araba e palestinese – ha avuto il sapore di un vero e proprio evento. Quasi cento partecipanti da tutto il mondo, 33 Paesi rappresentati da 53 partiti, per l’Italia presente il solo Pdci.
Un fenomenale collettore internazionale capace di far stare intorno allo stesso tavolo partiti arabi che spesso non accettano neanche lontanamente di dialogare fra loro. Alla fine fra mille distinguo ne è venuto fuori una tre giorni ricca di spunti ed interessi. La sinistra mediorientale ha dimostrato di non essere morta, anche se sembra ancora lontano il bandolo della matassa per uscire da una crisi che nasce ben prima della caduta del blocco sovietico. Oggi però c’è viva una speranza nuova: che dalla crisi economica in atto possano rinascere le ragioni dell’essere comunisti. Le riflessioni di tutte le forze marxiste mediorientali partono dalla consapevolezza che il loro spazio non può che ricercarsi all’interno di quelle che sono le tematiche principali in campo: questione palestinese e ruolo degli Usa nella regione. Da tutti un allarme per le divisioni all’interno del mondo politico palestinese, una divisione che diventa paradigma proprio di quel conflitto fra il vecchio nazionalismo, dilaniato dagli scandali economici e del tutto privo della fiducia del proprio popolo, che cerca sostentamento da un rapporto servile con il mondo occidentale – rappresentato dalla dirigenza vicina a Abu Mazen, ma anche dai regimi egiziani e giordani – e un risveglio islamico dalle sfumature integraliste che se da una parte accetta il gioco democratico del voto dall’altra non rinuncia a paventare la costruzione di un califfato religioso.
Nessuna scomunica verso alcuno dalle forze presenti nella capitale siriana, ma una forte consapevolezza di dover mettere in campo non solo risposte ideologiche ma quella concretezza capace di ricreare fiducia verso la loro gente. Alla fine dell’incontro insieme ad un documento politico lunghissimo uno snello programma sul «che fare».
E’ stata importante la discussione sulla rappresentanza palestinese. Tutti d’accordo sull’identificare nell’Olp un ruolo centrale, ma divisi sul fatto di considerare questo «l’unico» rappresentante o «uno» dei rappresentanti. E così se c’è chi vede nell’Olp lo strumento per superare le odierne divisioni, partendo anche dalla considerazione che la legalità internazionale assegna proprio a questa organizzazione un posto alle Nazioni Unite, c’è anche chi pensa che l’attuale quotidianità abbia oramai fossilizzato situazioni difficilmente modificabili e che sia meglio ragionare su una rappresentanza policentrica.
Un discorso a parte il tema delle alleanze all’interno dei singoli stati. In questo caso l’esempio paradigmatico diventa il Libano e le recenti elezioni politiche. Il Pc libanese in questi mesi è stato attraversato da una discussione, dai toni spesso accesi, sulla necessità di integrarsi all’interno di un fronte nazionale patriottico della resistenza, protagonista della guerra del 2006 e oggi monopolizzato da Hezbollah e dal partito del cristiano Aoun, scelta certamente interclassista ma che gli avrebbe permesso di avere una rappresentanza all’interno di quel Parlamento eletto con un sistema feudale che privilegia le confessioni, o – come è stato – ricercare un ruolo come forza classista e del lavoro all’interno di uno schieramento (probabilmente oggi minoritario) che mette al primo posto l’esigenza di dare risposte sociali alla crisi economica in grado di non penalizzare le classi più deboli ed emarginate. Una discussione analoga attraversa in questi mesi anche la Siria. Da una parte c’è chi vede nelle scelte di privatizzazione messe in atto dal partito Baath un «male necessario» per resistere alla volontà israelo-americana di mettere in ginocchio Damasco e chi invece invoca un ritorno a quella struttura socialisteggiante che aveva caratterizzato per decenni questo Paese. In Siria i due principali partiti comunisti sono coinvolti nel Fronte patriottico, l’alleanza che guida il paese da quarant’anni, ma non rinunciano a dire la loro.
Al meeting di Damasco sono stati presenti anche altri argomenti. Da quello del significato della parola «resistenza» – durissimo il confronto con i comunisti iracheni che premevano per un superamento di questo termine in favore di un più generico «lotta per l’indipendenza e la democrazia» – al giudizio sul sionismo, da molti considerato il vero male della regione e un vero e proprio fascismo in versione mediorientale. Un discorso a parte merita il dibattito nella sinistra araba sull’ipotesi di mettere in campo un forte movimento per il boicottaggio dei prodotti israeliani. Qui le differenze si annullano, tutti convinti della bontà di questa proposta, ma entrano in campo le differenze e i distinguo europei. Una certa opposizione a questa pratica è stata avanzata dalle delegazioni giunte a Damasco dei partiti di sinistra portoghesi e spagnoli, perplessità anche dai greci e dai ciprioti. A favore tutti i rappresentanti dell’Europa del nord. Quanti rifiutano il boicottaggio portano a loro favore la scarsa incidenza nei loro paesi di questa forma di lotta, l’opposizione dei sindacati, e infine, una sorta di ipocrisia: perché prendersela con la sola Israele se tutti concordano che il principale responsabile dei mali di questa regione sono gli Stati Uniti? Volti perplessi di fronte a questa discussione dai rappresentanti arabi e da quelli degli altri paesi del mondo. Una lunga discussione che loro avrebbero liquidato in pochi minuti.