La sfida multiculturale alla società occidentale

Multi-culturalismo è parola comparsa la prima volta nel 1982, nella Carta dei diritti e delle libertà del Canada (art. 27: “Patrimonio multiculturale dei Canadesi”). Nel 1992, Charles Taylor l´ha introdotta in un dibattito che investe ormai l´intero mondo occidentale, sotto la pressione crescente dell´emigrazione da Paesi lontani (J. Habermas – C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, 1999). Riconosciamo che siamo di fronte a una sfida cui proprio l´Europa è impreparata, per ragioni di storia e cultura. La confusione delle idee genera incertezze e, nell´incertezza, hanno spazio razzismo e xenofobia. Occorre riflettere per agire, sapendo che questa è una sfida ai fondamenti del nostro vivere civile alla quale non possiamo
sottrarci. Una sfida inevitabile. Culture e civiltà estranee, finora contenute in confini che l´Europa stessa ha contribuito a stabilire in secoli di politiche di potenza, sono in movimento. È all´opera la forza più elementare, diffusa e capillare, e perciò meno contenibile: la miseria e l´istinto di sopravvivenza. Fino a pochi anni fa, l´immigrazione verso l´Europa è stata un capitolo dei rapporti tra alcuni Stati e le loro ex colonie, oppure un effetto del “miracolo economico” tedesco che dava lavoro a “lavoratori-ospiti” a basso costo. In
passato, le politiche statali governavano l´immigrazione, nell´interesse delle economie nazionali. Oggi, i fattori degli spostamenti di popolazioni sono più profondi di quelli su cui la politica statale ha sovranità. Finché rimarranno attivi, le quote d´accesso e le limitate sanatorie degli irregolari saranno patetiche finzioni d´una capacità regolatrice perduta. In fondo, le migrazioni, con i loro drammi, sono una valvola di sfogo, in certa misura nell´interesse anche degli stessi Paesi d´arrivo. Il lungo periodo, cioè il discorrere di “nuovo ordine mondiale”, è solo un sottrarsi alle proprie attuali responsabilità e legittimare muri che dividono poveri da ricchi, frontiere militarizzate, repressioni e violenza alle stelle. Questo è il prezzo che ogni politica di chiusura dovrebbe essere disposta a pagare per stare tranquilli. C´è pure una ragione morale che deve valere, in una visione dei problemi
secondo equità. Non si tratta solo di ricordare i due secoli di emigrazione da Paesi europei e i vantaggi che ne hanno tratto.
Sotto certi aspetti, è all´opera la globalizzazione dal lato delle sue
vittime. L´emigrazione sud-nord ed est-ovest è un pur doloroso riequilibrio di profondi squilibri politici, economici, demografici e ambientali di dimensione mondiale. Guerre, sfruttamento, povertà, fame e malattie, esplosione demografica, trasformazioni climatiche e degrado ambientale convergono nella disperazione di intere aree sub-continentali e alimentano il movimento verso i Paesi del ricco Occidente che offrono prospettive o miraggi di sopravvivenza. Se consideriamo che gran parte di quelle cause, per qualche aspetto, dipendono
da noi stessi e dall´aggressività delle società che abbiamo costruito, possiamo perfino riconoscere una giustizia, un contrappasso o una domanda di risarcimento. La concreta disponibilità ad accogliere può non essere proporzionata alle dimensioni della domanda, ma il “buttiamoli a mare”, che talora esce dalla bocca di qualche xenofobo e alligna nell´animo degli sciovinisti europei del benessere, è un´ingiustizia su un´altra ingiustizia, rivestita di ributtante amor di Patria. Una sfida ai fondamenti Il multiculturalismo è una sfida all´universalismo, un pilastro della concezione morale dell´Occidente: «agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale», secondo la formula di Kant. La legge morale non può essere espressa da leggi diverse, luogo da luogo, comunità da comunità. Si creerebbero
divisioni insanabili tra gli esseri umani, incompatibili con la loro comune
natura morale. Il multiculturalismo pretende l´opposto: che le concezioni morali dipendano sempre da determinate visioni del mondo, ognuna egualmente valida dal proprio punto di vista. Per conseguenza, possono esserci modi diversi d´agire giusto e ciò che è giusto per me, che appartengo a una cultura, può essere assurdo per te, che appartieni a un´altra. Così, nessuno potrebbe concepire “la massima della sua volontà” come legge universale, né, tanto meno,
avrebbe il diritto di imporla ad altri, diversi da sé, nella vita politica sia
interna che estera. Il multiculturalismo è anche una sfida all´individualismo. I diritti umani della tradizione occidentale, almeno dal Rinascimento in poi, sono principalmente diritti degli individui (secondo la concezione liberale) o delle persone (secondo la versione cristiana). I diritti delle comunità sono bensì riconosciuti ma vengono dopo, come espressione di diritti di chi volontariamente ne fa parte. Se nasce un dissidio, è la libertà del singolo che prevale sulla compattezza del gruppo, non viceversa. Le appartenenze (religiose, culturali, politiche) devono dunque sempre essere volute o, almeno, accettate; non essere un dato della natura, della nascita o del destino.
Considerando i singoli non come individui, ma solo come parti di comunità, si rovescia questo rapporto, fino a giustificare la prepotenza del gruppo sui suoi componenti. Si comprende che nómos universale e primato dell´individuo possano essere accusati d´essere giustificazioni di politiche aggressive. La legge universalmente giusta chiederà di imporsi anche a chi non la riconosce come propria. Così, dietro la maschera, si scorge il volto della violenza imperialistica, distruttrice di culture e civiltà. Il primato dell´individuo, poi, abbattendo le barriere culturali comunitarie particolari, può creare quella superficie liscia sulla quale scorre l´esercizio di un potere illimitato, che azzera le differenze e omologa esseri umani in informe umanità.
Detto questo, non si può però non aggiungere che è impossibile rinnegare l´universalismo e l´individualismo senza rinnegare la nostra stessa civiltà. Per adeguarci alla società multiculturale, rinunceremmo noi per primi alla nostra cultura e, per non usare violenza agli altri, ne faremmo un uso suicida. Il dilemma del multiculturalismo, allora, deve formularsi in questi altri termini: se siamo condannati all´aggressività ovvero se vi sia un modo per liberarci dal veleno annidato nelle nostre concezioni politiche. Il banco di prova sono gli atteggiamenti di fronte alle comunità di altra cultura, atteggiamenti tutti riconducibili a queste tre idee: separazione, integrazione, interazione. La separazione è una co-esistenza senza con-vivenza. Il pregiudizio del separatismo è che le culture siano e debbano essere identità spirituali chiuse
e che le relazioni interculturali nascondano di per sé pericoli di
contaminazione. Popolazioni diverse vengano dunque, se proprio non si riesce a fermarle alle frontiere o ci è utile accoglierle in quote, ma stiano per conto loro. La separazione tra le popolazioni è l´unico modo di evitare lo scontro tra realtà inconciliabili, lo “scontro di civiltà”. Noi non cerchiamo contatti con loro e loro non cerchino contatti con noi. L´optimum sarebbe rendersi invisibili gli uni agli altri, vivere come se fossimo soli. Questa posizione si è espressa nel motto «separati ma uguali», che per quasi cent´anni ha regolato i rapporti tra bianchi e neri negli Stati Uniti. In teoria, il pregiudizio separatista potrebbe condividersi perfettamente da entrambe le parti, autoctoni e migranti, ed essere così un´ideologia simmetrica: siamo diversi, punto e basta. In pratica, tuttavia, quando una parte (l´autoctona) è più forte dell´altra (la migrante), la separazione si muta in segregazione, cioè in violenza discriminatoria. È celebre il doll test, assunto come argomento nella celeberrima sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel Brown case che, nel 1954, diede avvio all´integrazione scolastica. Sedici bimbe nere, di fronte a identiche bambole bianche e nere,
furono richieste della loro preferenza. Undici qualificarono la nera come
brutta e cattiva e nove, la bianca come bella e buona. Il risultato del test mostra che la separazione, a causa dell´insoddisfatto bisogno di
riconoscimento, genera nei più deboli auto-disistima e desiderio di
identificazione nei più forti. In condizioni sociali di disuguaglianza, il
riconoscimento negato può essere di per sé una forma sottile e molto efficace di oppressione che le vittime interiorizzano come effetto naturale di una propria inferiorità. A loro volta i forti rafforzano il proprio senso di superiorità e così “schiavo e padrone si corrompono a vicenda”. All´inferiorità psicologica corrispondono condizioni di vita, di fatto e di diritto, segreganti: privazione dei diritti civili e politici, scuole separate, servizi sociali peggiori o inesistenti, lavori non qualificati e sottopagati, vita in quartieri-ghetto lasciati a loro stessi o in mano alla criminalità; in una parola, uno status sociale degradato. I momenti di contatto con l´altra parte sono ridotti al minimo e per lo più cadono nel campo d´azione della polizia. Di diritto, questa è stata la condizione, per esempio, dagli ebrei della diaspora fino alla chiusura dei ghetti, dei neri nel Sud-Africa fino alla fine dell´apartheid, dei neri in America fino alle sentenze e alle leggi antisegregazioniste degli anni ´50 e ´60 del secolo scorso. Ma sappiamo bene che la discriminazione non ha bisogno del diritto. Bastano le leggi dell´economia di mercato e le mentalità piccolo-borghesi a creare esclusioni, discriminazioni, segregazioni; quartieri monoculturali, disperazione e violenza; barriere invisibili ma ferree tra persone e luoghi. Il test delle bambole negli Stati Uniti è stato ripetuto l´anno scorso con uguale risultato. L´integrazione mira alla società omogenea, in cui le differenze culturali si attenuino fino a scomparire. Il suo presupposto è che, con la seduzione o con
la forza, le culture possano cambiarsi confluendo l´una nell´altra.
L´atteggiamento di quella di accoglienza non è perciò pregiudizialmente ostile a quelle d´ingresso. Tuttavia, l´integrazione rinvia alla dinamica tra una cultura che integra e una che è integrata, cioè a un´asimmetria tra l´una, più vitale, e l´altra, meno. L´integrazionismo è così, fatalmente, ideologia della cultura dominante e, prima o poi, manifesta la sua vera natura, che è l´assimilazionismo. L´assimilazionismo, presupponendo la superiorità di una cultura sulle altre, è una versione mite di razzismo culturale che giustifica la pretesa di fagocitare culture recessive e così di cancellarle dalla faccia della terra o, al più, di lasciarle sopravvivere come folklore. Voltaire e Marx pensavano a una soluzione di questo tipo per la “questione ebraica”. Ma può tradursi anche in azione violenta: se la cultura diversa “non è integrabile” (come si diceva nella Germania nazista per gli “ebrei dell´est”, o come si dice oggi da qualcuno per le comunità islamiche) la società omogenea ben giustifica la segregazione se non l´annientamento.
L´integrazionismo si traduce in atteggiamenti pratici opposti a quelli
separatisti. Anziché valorizzare gli aspetti comunitari delle diverse culture, per poi contrapporli e tenerli lontani, esso mira alla distruzione delle comunità diverse e alla riduzione dei loro membri a soli individui sradicati, per poterli assorbire. C´è però un paradosso o una contraddizione: integrazione è parola d´ordine delle comunità organiche culturalmente omogenee. Si può essere contro le comunità quando si parla d´altri e non quando si parla di sé? La relazione della Commissione Stasi del 2004, ispiratrice della legislazione francese che, tra l´altro, pone divieti all´uso pubblico del velo islamico, è perciò una strana contraddizione: combatte il pericolo del “mosaico culturale”, ma, a questo fine, finisce per proporre un quadro culturale a tinta unica senza contrasti, l´azzurro “repubblicano”.
L´interazione non è l´integrazione. Una piccola lettera in meno e un grande cambio di prospettiva. Suo postulato è la necessità e la capacità delle culture di entrare in rapporto, sia per definire se stesse sia per costruire insieme. In questa disponibilità a rinnovarsi apprendendo gli uni dagli altri (spregiativamente e stupidamente, con un tocco di razzismo biologico, si è parlato di ibridazione e meticciamento), c´è il contrario del separatismo. Ma c´è anche il contrario dell´integrazionismo nel reciproco riconoscimento del diritto di esistere e svolgere la propria opera di acculturazione, senza posizioni dominanti.
L´ethos dell´interazione è anti-fondamentalista ma non relativista. Per aversi interazione non basta la tolleranza. Occorre che ciascuna parte riconosca le altre come competitori-collaboratori nella ricerca di verità autentiche, senza rinunciare a priori ai propri ideali e valori. Solo, occorre che nessuno assuma il monopolio di verità possedute una volta per sempre o, quantomeno, che si distingua il campo delle certezze che vengono da una fede in Dio dal campo delle incertezze della condotta morale e dei rapporti civili. La concezione non cristallizzata della cultura comporta soprattutto che le diverse comunità, all´esterno, siano aperte al confronto e al mutamento per reciproca influenza e, all´interno, rispettino la soggettività dei propri membri e il diritto di decidere autonomamente di restarvi o, eventualmente, di uscirne. Così, l´interazione è l´unica risposta alla sfida del multiculturalismo conforme ai due pilastri della cultura occidentale da cui queste considerazioni si sono sviluppate, l´universalismo e l´individualismo: universalismo non come imposizione generalizzata di una cultura egemone ma come apertura al dialogo in libertà, verità e giustizia; individualismo non come sradicamento ma come priorità della coscienza degli esseri umani sulle appartenenze culturali di nascita e destino. Così restiamo fedeli a noi stessi e ci scrolliamo di dosso l´aggressività che spesso è addossata all´Occidente, come sua colpa maggiore. Ma, si dirà, l´interazione delle culture è un freddo modo di vivere nichilista. Per nulla. Al contrario, è essa stessa cultura, se si vuol dire così, una meta-cultura ricca di tutti i contenuti della con-vivenza: rispetto reciproco, apertura e curiosità per le diversità, spirito di uguaglianza e accoglienza, calda fratellanza nelle difficoltà della condizione umana. Può sembrare vuota ai monoculturalisti che credono sia loro diritto naturale a possedere la terra su cui è dato loro casualmente di vivere, come serra di coltura della loro sola cultura. Non si accorgono, così, di trasformarla in un campo di battaglia, nella “aiuola che ci fa tanto feroci” di cui parla Dante nel canto XXII del Paradiso (v. 151). Non si accorgono che il loro tema è la ferocia. Tutti i numerosi e complessi problemi che oggi si pongono alla politica nei suoi compiti regolativi della convivenza di culture diverse nello stesso paese – i segni distintivi e i simboli, la scuola e l´insegnamento delle religioni, l´esercizio pubblico dei culti, il diritto di voto e i rapporti con le autorità statali, la famiglia, la convivenza tra i sessi, i rapporti tra genitori e figli, le mutilazioni sessuali, fino alle politiche urbane e agli eventuali test culturali d´ingresso in Italia – si prestano a essere illuminati da questa concezione dell´essere cultura dell´Occidente.