La cosiddetta situazione «post-secolare» in cui ci troviamo, in particolare in Italia (i parroci in piazza, i vescovi sulle prime pagine dei giornali, la Chiesa come quinto potere e voce di primo piano nella sfera pubblica), ha in fondo una spiegazione piuttosto semplice, se si considera il particolare rapporto tra religione e filosofia che Joseph Ratzinger ha voluto stabilire come cifra del suo operato, in qualità di teologo e in qualità di pontefice.
In uno dei suoi primi discorsi dopo la nomina, Ratzinger ha detto espressamente: «dei fondamenti si occupa la religione». Nessun filosofo ha protestato, che io sappia, e le sue parole sono state accolte con tranquillità e indifferenza anche da tutti gli intellettuali che normalmente si preoccupano di commentare e discutere le posizioni dottrinali del Papa. Eppure, la sfida non poteva essere più esplicita.
Temi al centro del dibattito
Per «fondamenti» si intende (e verosimilmente Ratzinger intende) l’insieme delle teorie di sfondo, preliminari e universali, che orientano la vita associata, e che riguardano l’etica della nascita e della morte, la natura delle relazioni sociali, affettive, sessuali tra esseri umani, l’essere persone o cose, e così via. Come ci è ormai noto, temi di questo tipo sono al centro del dibattito pubblico, e sappiamo anche che le gerarchie cattoliche, coerenti con il programma ratzingeriano, se ne occupano molto alacremente.
Non è facile dire quale settore della cultura laica dovrebbe invece trattare simili argomenti: tutti ne sanno qualcosa (una parte), in modo più o meno scientifico. Ma c’è un’area delle conoscenze che per sua natura dovrebbe essere votata all’elaborazione dei fondamenti, ed è la filosofia, e idealmente dovrebbe farlo elaborando e sintetizzando i risultati delle diverse scienze ed espressioni culturali. La sfida di Ratzinger era dunque filosofica, e specificamente rivolta alla filosofia. Il silenzio con cui è stata accolta la sua dichiarazione dice molto sulla difficile identificabilità pubblica della filosofia come tale (nonostante i molti festival che le vengono dedicati): se avesse detto, poniamo, «delle equazioni di sesto grado si occupa la religione», probabilmente non soltanto i matematici avrebbero obiettato.
Configurazione di una pretesa
Va detto che gli intenti di Ratzinger a questo proposito sono sempre stati espliciti. L’obiettivo è – come lui stesso ama dire riferendosi ai Padri della Chiesa – «l’appropriazione della filosofia» da parte della religione cristiana. Più propriamente diremmo, alla luce delle recenti tendenze: l’occupazione del posto scientifico e culturale della filosofia, resosi vacante, per vari motivi (non ultimo la distrazione, o disaffezione, o addirittura avversione dei filosofi riguardo a parole come «fondamenti»). Ma da dove viene e come si configura questa pretesa, quali sono le sue ragioni, e quale è (se esiste) il punto debole dell’operazione?
Sintetizzando al massimo, la posizione filosofica di Ratzinger ha due aspetti principali: una metafisica (più o meno esplicitamente) neokantiana e storicista; una di ispirazione patristica. Quanto al primo aspetto, per «metafisica neokantiana e storicista» si intende l’adesione a una concezione della realtà così concepita: ciò con cui abbiamo a che fare non è tanto realtà ma storia, narrazione di eventi umani. Ora dal punto di vista di Ratzinger (prevedibilmente) questa narrazione si è arricchita a un certo punto con l’ingresso del nome ebraico di Dio, quindi con l’inaudito fenomeno del Dio incarnato, diventato parola e vita umana.
Tutto ciò ha dato una straordinaria autorità alla storia. Non soltanto la narrazione delle vicende umane-divine è la fonte primaria del nostro ragionare e sapere, e non esiste una realtà «in sé», separata dai discorsi che narrano le vicende di Dio e dell’uomo; ma anche: la verità della storia è la voce stessa dell’in sé, nel senso più alto e specifico del termine, per l’appunto Dio.
Che ne facciamo della scienza?
Certo molti problemi restano in sospeso. Se la fonte di verità è la storia di Dio nel mondo, come la mettiamo con la scienza? La scienza non è forse un’altra voce dell’in sé, o comunque una fonte alternativa di verità (di descrizione della realtà)? La risposta può giungere prontamente: anche la scienza è narrazione, e nella misura in cui si accorda all’altra narrazione, quella privilegiata, tutto funziona nel migliore dei modi; in casi di divergenza, quando si tratta di scegliere tra la storia di Dio e la storia degli sforzi umani di conoscenza, non c’è dubbio: si sceglie Dio.
Ora le ragioni della tesi «i fondamenti sono di competenza della religione» appaiono con evidenza. Dal punto di vista in largo senso neokantiano (che in questo caso vuol dire neokantiano in senso stretto, ma anche neoempirista e storicista: tutte correnti del Novecento accomunate da uno stesso principio di autolimitazione empiristica della ragione) i fondamenti non sono oggetto di un sapere razionale. Di qui l’idea (che in particolare Ratzinger condivide con Habermas) di una natura extrafilosofica (ed extrascientifica) dell’indagine sui fondamenti. Ma qui avviene anche il «rovesciamento» operato da Ratzinger: sì, i fondamenti sono extrafilosofici, dunque di competenza della religione, ma la religione cristiana non è affatto estranea alla ragione, anzi: è la compiuta espressione del logos greco.
Perché mai Ratzinger riesce a dire questo? La risposta si trova nel secondo aspetto della sua posizione filosofica. L’ispirazione patristica percorre tutto il pensiero dell’attuale Pontefice, dalla prolusione d’insediamento all’Università di Bonn del 1959, titolata Il Dio della fede e il Dio dei filosofi ora pubblicata dalle edizioni Marcianum di Venezia (traduzione di E. Coccia, postfazione di H. Sonnemans), fino alla raccolta di scritti del 2003, Fede, verità, tolleranza, passando per l’Introduzione al cristianesimo (1969).
Che cosa vuol dire «ispirazione patristica»? Essenzialmente, vuol dire tre cose: 1) un’impostazione apologetica e missionaria, ossia una elaborazione della dottrina tutta mirata alla difesa e alla diffusione del messaggio cristiano; 2) un’attenzione specifica alla dogmatica, ossia alla fissazione delle verità istitutive dell’ortodossia; 3) una forma di fondamentale razionalismo, ossia di elaborazione del cristianesimo su base razionale, attraverso appunto «l’appropriazione» del linguaggio filosofico.
Immaginate i primi esponenti delle gerarchie cristiane, gli eredi diretti di Pietro e degli apostoli, e questi tre aspetti vi appariranno con evidenza. Quel che dovevano fare i Padri era difendere l’insegnamento evangelico dai molti nemici ebrei e pagani, e diffondere la dottrina. Ma soprattutto, dovevano fare della dottrina una vera ‘dottrina’, ossia creare l’ortodossia, perché la natura sostanzialmente ellittica e aperta del messaggio evangelico autorizzava le ipotesi più strampalate, e ancora prima di essere una vera religione il cristianesimo si trovava a essere lacerato dalle eresie. Come ottenere chiarezza, e soprattutto istituzionalità in queste condizioni? Semplice: richiamandosi alla filosofia, e più precisamente al logos greco, la ragione filosofica che «accomuna tutti».
Che il teologo Ratzinger faccia riferimento alla patristica è ragionevole: lì si pongono le basi, lì è l’alba del cristianesimo. Ma perché il politico-intellettuale Ratzinger ritiene di dover ancora applicare la strategia patristica? La prima risposta riguarda gli affari interni del cattolicesimo. L’assimilazione del contesto contemporaneo a quello patristico è motivata dall’esigenza di rifondazione rispetto alla deriva pluralistica e libertaria del cristianesimo postconciliare. La Chiesa attuale dunque deve consolidarsi e difendersi, come quella antica. Questo ci spiega l’impostazione eminentemente dogmatica e difensiva del magistero di Ratzinger. Ci spiega anche perché tale magistero, nonostante il grande dispiegamento di competenza filosofica e sensibilità ermeneutica, sia destinato ad allearsi alle forze più tradizionaliste e conservatrici del cattolicesimo, dando spazio e ragione alle loro tendenze fobiche e repressive.
Ma è solo la prima ragione della mossa filosofica compiuta da Ratzinger. La seconda riguarda il rapporto tra Chiesa e Stato, religione e società civile. Anche qui la spiegazione è chiara, e non lascia adito a dubbi. L’obiettivo è far sì che il cristianesimo «si ponga distintamente come un’alternativa epocale» (così dichiarava l’aggiunta del 2000 all’Introduzione al cristianesimo). Il marxismo – scrive l’attuale Pontefice – è stata l’«unica visione del mondo scientifica corredata di motivazione etica e adatta ad accompagnare l’umanità nel futuro», ma «dopo il trauma del 1989», il marxismo è crollato, e «nessuno crede più alle grandi promesse morali». Il marxismo – leggiamo nell’enciclica Deus caritas est – aveva indicato una soluzione filosofica, ossia fondata scientificamente e razionalmente, della «problematica sociale»: ora «questo sogno è svanito», e in queste condizioni «la dottrina sociale della Chiesa è diventata un’indicazione fondamentale».
Ecco dunque il vero compito dell’«appropriazione della filosofia» da parte del cristianesimo: occorre proporsi come la filosofia prima di cui l’Occidente è da molto tempo privo, e di cui da molto tempo sente il bisogno. Abbiamo perso ogni connected politics, ogni politica ispirata a una visione generale della realtà? Abbiamo perso un orientamento unitario, cognitivo e morale? Ebbene, la religione cristiana ci dà tutto questo. Gli esseri umani politicamente ed eticamente sbandati e privi di ‘filosofie prime’ hanno ora bisogno della ratio filosofica cristiana, vera erede della grande tradizione filosofica occidentale.
Sarà valida questa terapia?
Notiamo che la diagnostica è impeccabile: è vero che la politica pragmatizzata e l’etica frammentata in cui vive l’Occidente rendono inoperanti le migliori intenzioni; è vero che i dibattiti attuali (nella scienza, nella cultura, nella politica) sembrano richiedere a gran voce il lavoro di una nuova filosofia prima. Ma siamo sicuri che la terapia proposta sia quella giusta? Il rischio verosimile, che sta puntualmente avverandosi, è che le gerarchie cattoliche si trovino a far la parte dei ciechi che vogliono ad ogni costo guidare altri ciechi a trovare la via.
Eccoci dunque al punto conclusivo, ossia al punto in cui la barca predisposta da Ratzinger per traghettarci nell’epoca della fine delle ideologie fa acqua. Il fatto che la proposta non funzioni, e non possa fornirci, anche con le migliori disposizioni del caso, la filosofia prima di cui presumibilmente necessitiamo, si vede bene considerando i due aspetti della filosofia di Ratzinger. Mettete insieme una metafisica debole e storicista, e un pensiero forte, dotato di progettualità risolute, e di accurate procedure difensive, come la patristica, e avrete quel che già sapete di avere: un pesante e barcollante edificio costruito sulla sabbia o sull’argilla. Sarebbe meglio, sicuramente, la combinazione opposta: una metafisica coraggiosa, con un contegno aperto e anti-dogmatico.
Chi ci dice cosa fare
In ogni caso, la costruzione di Ratzinger soffre l’ipoteca del logos moderno, post-metafisico, più di quanto egli stesso riconosca. Lo storicista Ratzinger non dà definizioni chiare di ciò di cui parla (embrioni umani, donne, celibato e famiglia, vita e morte) ma preferisce rifugiarsi nella tradizione. La catechesi ratzingeriana ripete: «…è una dottrina proposta infallibilmente dalla Chiesa», che «appartiene al deposito della fede della Chiesa», che conferma «il carattere infallibile dell’insegnamento della dottrina della Chiesa». I risultati prevedibili sono due: la fallacia storicista, ossia il derivare le norme dal fatto della convenzione e della tradizione, per esempio: le donne non devono avere accesso al sacerdozio perché non l’hanno mai avuto; l’inconsistenza, ossia il far valere una regola insieme alla sua violazione, per esempio: è sacra la vita di un organismo proto-embrionale ma non è sacra la vita di un condannato a morte in Texas.
È probabile che a Ratzinger sia nota la fragilità filosofica delle posizioni della Chiesa su questi temi, in base alle sue stesse premesse però non ha molte alternative. Per uscire dal circolo vizioso forse i vescovi dovrebbero davvero mettersi a fare i filosofi, ma allora non avrebbero tempo per dirci quel che dobbiamo fare.