Se ne sono dette tante, in queste ore. Si è detto, ad esempio, che il No francese al Trattato costituzionale europeo si sarebbe imposto per l’assenza, in quest’ultima, di qualsiasi riferimento al ripudio della guerra. Non riteniamo che questo tipo di interpretazioni favolistiche sia d’aiuto, in questo momento. L’esito delle urne in Francia può infatti rappresentare una straordinaria occasione per la sinistra europea, ma solo a condizione che per una volta si guardi bene in faccia la realtà e i rischi insiti in essa.
Dietro la vittoria del No sussistono, come è noto, due pulsioni strettamente intrecciate tra loro. La prima è quella che riconosce, nel volto neoliberista delle politiche di allargamento e di unificazione europea, un processo teso alla disgregazione delle tutele assicurate dagli stati sociali nazionali. La seconda è quella che, col venir meno di un modello sociale imperniato su tutele nazionali, individua nello “straniero” la più visibile minaccia alle condizioni materiali di vita. Il legame tra queste due istanze appare fortissimo. In Francia, in Italia e negli altri paesi europei, basterebbe interrogare un po’ di elettori appartenenti alle fasce sociali più deboli, e in particolare alla vastissima categoria del lavoro non specializzato, per scoprire che anche tra quelli orientati a sinistra le delocalizzazioni e l’immigrazione sono assurte al rango di motivi dominanti delle loro paure. Queste paure, si badi, non rappresentano il riflesso di una inspiegabile isteria collettiva. Piuttosto, esse sembrano emergere quale prodotto “materiale” dei mutamenti in corso. Le ricerche del resto confermano che in Europa è in atto da tempo un fenomeno di convergenza al ribasso delle retribuzioni, che investe anche i lavoratori sindacalizzati e al quale si sottrae soltanto una minoranza di soggetti qualificati o protetti dall’apparato pubblico. Questo livellamento al ribasso dei salari ha subito nel tempo delle accelerazioni progressive, in concomitanza con le riforme a favore della libera circolazione dei capitali, della localizzazione all’estero degli investimenti produttivi, e più di recente della immigrazione di lavoratori provenienti dall’Est europeo.
Il virus xenofobo che va diffondendosi, anche a sinistra, presso le fasce più deboli della popolazione e che è risultato ben visibile durante la campagna elettorale francese, non costituisce dunque “un evento misterioso”, come qualche intellettuale ancora si affanna a sostenere. Al contrario, esso rappresenta l’inevitabile conseguenza del modello socio-economico europeo definito a Maastricht ed ereditato dal Trattato costituzionale: un modello che mira ad alimentare la concorrenza tra lavoratori del centro e della periferia europea, facendo esplodere la contraddizione di un differenziale retributivo che talvolta sfiora l’incredibile rapporto di 1 a 8 (a parità di competenze e prestazioni!).
In un simile scenario, occorre qualificare l’affermazione di Romano Prodi secondo cui l’allargamento a Est, costituendo una fondamentale garanzia di pace in Europa, non può essere messo in discussione dal referendum francese. L’unico modo a nostro avviso per dare un senso non retorico a questa dichiarazione è chiarire che Prodi non parla di “pace tra le nazioni” bensì di “pace sociale”. A ben vedere, infatti, le modalità neoliberiste con le quali si sta svolgendo l’allargamento sembrano ripercorre il sentiero delle politiche di immigrazione e di segmentazione razziale del mercato del lavoro con le quali gli Stati Uniti hanno sempre gestito il conflitto sociale interno. Questa analogia è stata più volte evocata da chi ritiene che la disponibilità di un vastissimo esercito industriale di riserva proveniente dall’Est, frutto del processo di unificazione, consentirebbe al capitalismo europeo di sferrare il colpo decisivo agli elementi di sindacalismo e di protezione sociale che tuttora risiedono nella Europa dei fondatori. Naturalmente c’è chi sostiene, come Toni Negri e i suoi epigoni, che spontaneamente i “migranti” si integrino nelle “moltitudini”, e che di conseguenza le ambizioni alla “pax perpetua” del capitalismo europeo siano destinate a crollare sotto le inarrestabili pressioni migratorie e sociali. Ma i rumori di fondo della campagna referendaria di Francia sembrano offrire ben pochi spunti per questa sorta di “ottimismo teleologico di ritorno”. Il popolo francese ha infatti positivamente mostrato di respingere le politiche neoliberiste e di favorire sistemi di protezione sociale; tuttavia, sembra anche essersi incamminato sulla strada di una forte resistenza “nazionalistica” alla unità di classe di tutti i lavoratori, indipendentemente dal luogo di provenienza. Il rischio, in proposito, è duplice: può darsi infatti che il progetto di allargamento sostenuto da gran parte del capitalismo europeo non si indebolisca affatto, ma tenda piuttosto a consolidarsi in una prospettiva di segmentazione del lavoro di stampo americano; oppure, se anche quel progetto fallisse, ci sono alte probabilità che lo scenario assumerebbe sempre più le tinte nazionalistiche e neo-fasciste che già oggi riscuotono numerosi consensi nel continente.
Il successo trasversale dello slogan “prima i francesi, poi tutti gli altri” rappresenta dunque un monito severo soprattutto per la sinistra, chiamata a trasformare l’impasse generata dal No francese al Trattato costituzionale europeo in una reale occasione politica di cambiamento. A questo scopo, occorrerà prender coscienza che, se si intende tuttora aderire al progetto di allargamento dell’Europa a 25, e al tempo stesso si vuole impedire una totale disgregazione del blocco sociale favorevole a un’Europa antiliberista, è necessario spingere per una lotta unitaria a favore di una espansione dei salari reali e della spesa pubblica ben al di sopra delle dinamiche del reddito, della produttività e dell’occupazione. Infatti, nessun “conflitto vincolato”, nessuna crescita dei salari e della spesa pubblica “compatibile” con il livello attuale dei redditi da capitale o con i vincoli alla spesa del Patto di Stabilità, potrà mai contrastare la tendenza in atto al livellamento delle retribuzioni e delle relative condizioni di vita dei lavoratori europei verso gli attuali standard polacchi e rumeni.
Tutto questo significa, in sostanza, che la spinta sui salari e sulla spesa sociale non costituisce più “soltanto” la condizione per potere svolgere un ruolo decisivo nel processo di costruzione europea. Quella spinta, oggi, rappresenta anche una condizione per la realizzazione di quella unità di classe su scala europea con la quale le istanze di cambiamento radicale si dovranno misurare. In caso contrario, non nascondiamoci dietro un dito: sarà inevitabile per la sinistra chiudersi a riccio e ripiegare anch’essa sul protezionismo e sul rigido controllo delle frontiere verso Est.